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È il Parlamento Europeo la sede scelta da Alzheimer Europe -  l’organizzazione che riunisce 40 Associazioni Alzheimer nel nostro continente, tra cui Federazione Alzheimer Italia - per presentare il nuovo “European Carers’ Report 2018”, il Rapporto che evidenzia quali siano in Europa, dal punto di vista dei familiari e dei carer, i maggiori ostacoli a una diagnosi tempestiva delle persone con demenza.
 
Il Rapporto è stato redatto da Bob Woods - professore di Psicologia Clinica presso l’Università di Bangor (Galles, Regno Unito) e direttore del Dementia Services Development Centre Wales - sulla base dei sondaggi effettuati nel 2017 dai 5 Paesi che hanno raccolto l’esperienza di carer e familiari di persone con demenza nei loro territori (Italia, Scozia, Olanda, Repubblica Ceca e Finlandia). Nel complesso sono stati 1.409 i familiari, di cui 339 italiani.
 
I dati più significativi riguardano la tempistica nell’individuazione della diagnosi e la sua comunicazione al malato.
Dall'analisi emerge che tra i principali ostacoli alla diagnosi precoce, i familiari segnalano un ritardo significativo nell’individuazione della diagnosi stessa: in media passano 2,1 anni per ricevere la diagnosi corretta, cifra che migliora leggermente in Italia con 1,6 anni. A questo dato si aggiunge il 25% dei malati a cui viene diagnosticata inizialmente un’altra condizione medica, percentuale che sale per gli italiani al 31,9%.
Una volta poi stabilita la diagnosi corretta, si è registrato tra i malati un 53% di demenza lieve, 36% moderata, 4% grave; quasi la metà dei familiari (47% nel complesso e ben il 52,1% in Italia) credono che il tasso di diagnosi sarebbe risultato migliore se valutato più tempestivamente.
Significative differenze sono presenti tra i Paesi europei nella comunicazione della diagnosi alla persona con demenza: se il 59,3% dei carer italiani dichiara che la persona non è stata informata della malattia, la percentuale scende al 23,2% in Repubblica Ceca, all’8,2% nei Paesi Bassi, al 4,4% in Scozia e all’1,1% in Finlandia.
 
Questo “primato” italiano viene commentato da Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia: “Una diagnosi tempestiva insieme al coinvolgimento del malato nelle decisioni che lo riguardano e all’ascolto delle sue esigenze sono fondamentali per combattere l’esclusione sociale e lo stigma, per assicurare dignità e migliorare la qualità di vita dell’intera famiglia coinvolta”.
 
Infine, il supporto post-diagnostico rimane un problema che accomuna tutti gli Stati: nel complesso la metà dei familiari richiede informazioni su come affrontare e convivere con la demenza e sui servizi disponibili sul territorio. In Italia si registra la maggiore insoddisfazione sulle informazioni ricevute.
 
Dalla ricerca emerge un preciso profilo del carer: in Italia nella maggior parte dei casi si tratta del figlio della persona malata (64,8%; solo nei Paesi Passi sono di più i mariti/mogli con un 53,7%) e di sesso femminile (80,3%). Anche negli altri quattro Stati europei considerati le donne carer corrispondono alla maggioranza (82,8%).
In Italia anche le persone con demenza - che nel complesso si stimano in 1.241.000 - sono nella maggior parte dei casi donne (73,9%), tra i 75 e gli 84 anni (49,1%), e quasi la metà di loro vivono in casa con i loro familiari (46,4%) o con altri carer (28,7%), mentre sono pochi coloro che alloggiano presso residenze assistenziali (12,1%)