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Presentati i dati della ricerca di Clicon sul sottotrattamento con farmaci biologici nell'area delle malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) durante l'evento digitale promosso da IG-IBD (Italian Group for the study of Inflammatory Bowel Disease) e da IBG- Italian Biosimilars Group.

Oltre un quarto (28,6%) dei pazienti italiani affetti da malattia di Crohn (MC) o colite ulcerosa (CU) potrebbe essere curato con farmaci biologici ma non riceve tali trattamenti, pur rispondendo ad almeno uno dei relativi criteri di eleggibilità. Si tratta cioè di pazienti che non rispondono ai trattamenti con steroidi o risultano intolleranti o dipendenti dagli stessi, ovvero pazienti con patologia MC/ CU in riacutizzazione severa, o malattia di Crohn estesa e con prognosi sfavorevole. È quanto emerge dalla ricerca realizzata da CliCon - Health, Economics & Outcome Research (società specializzata in progetti di ricerca ed analisi dei dati in ambito sanitario) presentata oggi in un evento in streaming con la partecipazione dell’associazione di pazienti Amici Onlus e la presenza del Sottosegretario di Stato alla Salute, Senatore Pierpaolo Sileri.

«Il tema del sottotrattamento è un argomento noto - ha detto Sileri - il punto di partenza per affrontarlo, per qualsiasi patologia, è partire da quanti pazienti sono da trattare, creando ad esempio un registro. Poi è necessario lavorare a stretto contatto con le società scientifiche e le associazioni e - perché no-  anche con le aziende, per creare adeguati percorsi, puntando su ricerca, formazione e programmazione. Su questi temi sarà istituito a stretto giro un tavolo di lavoro al ministero della Salute che lavorerà a stretto contatto con l'Intergruppo parlamentare sulle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali, nato a fine marzo e promosso dall'Associazione Amici Onlus: servirà a convogliare sulla parte politica e istituzionale tutte le richieste emerse a livello nazionale attorne a questa tematica».

A tracciare il quadro epidemiologico nazionale di riferimento è stato Alessandro Armuzzi, Responsabile Comitato Educazionale IG-IBD«Le MICI colpiscono in Italia circa 250 mila persone, con una incidenza e prevalenza medio alta e un picco di insorgenza è in età giovane adulta, tra i 20 e i 30 anni (20% i casi diagnosticati in età pediatrica) - ha spiegato -. Sono malattie croniche, che alternano remissione e riacutizzazione, determinando in alcuni casi manifestazioni extra intestinali, quali artriti, patologie infiammatorie cutanee, oculari o epatiche. Il tutto in una fase della vita in cui l’individuo è pienamente in attività e produttivo». Per quanto riguarda le terapie, ha spiegato ancora Armuzzi «si cerca di utilizzare i farmaci “on time”, intervenendo tempestivamente per alleviare i sintomi e ridurre la progressione del danno intestinale. In linea generale le principali terapie farmacologiche sono i salicilati, i cortisonici, gli immunosoppressori, e terapie “avanzate” come i farmaci biologici e le “small molecules”. I farmaci biologici e biosimilari svolgono un ruolo molto importante nella gestione del paziente affetto da MICI: quando utilizzati, hanno il vantaggio di portare ad una veloce e immediata attenuazione, se non scomparsa, dei sintomi e ad una cosiddetta “guarigione mucosale” delle ulcere».

Nonostante il riconoscimento dei benefici prodotti le terapie biologiche sono ancora ampiamente sottoutilizzate per queste patologie, come dimostrato dai risultati della ricerca realizzata da CliCon, cuore dell’evento.

«Ci siamo dati come obiettivo quello di stimare la quota di pazienti affetti da malattia di Crohn (MC) o colite ulcerosa (CU) eleggibili alla terapia biologica nel contesto della pratica clinica italiana», ha spiegato l’economista Luca Degli Esposti (CliCon), coordinatore dello studio commissionato dal Gruppo italiano biosimilari di Egualia. «Abbiamo realizzato una analisi retrospettiva basata sui flussi amministrativi, cosiddetti real-world data, di un campione rappresentativo di Aziende Sanitarie Locali (ASL) distribuite in tutta Italia, per una popolazione di 6,8 milioni di cittadini, includendo tutti i pazienti con diagnosi di MC o CU a partire dal 2010 - ha proseguito. Dei 26.781 pazienti con diagnosi di MC o CU individuati, 3.125 (11,7%) sono risultati già in trattamento con un agente biologico. Per gli altri, i pazienti non trattati con farmaci biologici (23.656 in totale), 7.651, oltre un quarto della popolazione sotto esame, presentava uno o più criteri di eleggibilità alla terapia biologica».

A sottolineare l’importanza nell’appropriatezza nella scelta delle terapie è stato Marco Daperno, Segretario generale IG-IBD: «Queste malattie, proprio per l’impatto che hanno sulla quotidianità dei pazienti, sono associate a numerose problematiche fisiche e psicologiche, che possono anche includere depressione e stress. Una riunione di lavoro o lo stare a tavola con la famiglia possono diventare attività incredibilmente difficili per chi ne soffre, che talvolta rischia il proprio posto di lavoro o un demansionamento a causa della malattia - ha detto - . Oggi grazie ai progressi terapeutici, le fasi acute possono essere tenute lontane per un periodo sempre più lungo, con importanti benefici fisiologici e psicologici per i pazienti, nonché con possibili impatti anche in termini di risparmio di interventi chirurgici e assenze lavorative». «Ciò nonostante - ha proseguito Daperno - sembra che uno degli approcci terapeutici adeguati, ovvero l’accesso alla terapia con farmaci anti-TNF o biotecnologici più in generale sia proposto ai pazienti in misura inferiore a quanto apparentemente necessario. Quanto questo possa rappresentare un problema, peraltro già evidenziato anche in altre aree terapeutiche (come la Reumatologia con uno studio analogo) e quanto sia utile ricercarne le cause, è l’argomento di ricerca che attualmente si pone l’associazione scientifica IGIBD, per poter capire se esistano barriere al trattamento di tipo normativo, economico o di conoscenza, e per poter migliorare l’offerta terapeutica per i pazienti italiani affetti da IBD».

«Per consentire ai pazienti di vivere la loro vita il più possibile liberi dai sintomi, ma anche per ridurre il rischio di complicazioni e di ricorso a interventi chirurgici nel più lungo termine è fondamentale l’accesso a questo tipo di terapie», ha commentato Salvo Leone, direttore generale di AMICI Onlus, che ha evidenziato anche una necessità di maggiori informazioni indirizzate ai pazienti. «I risultati emersi dalla ricerca CliCon hanno evidenziato una tendenza al sotto-trattamento che va sicuramente approfondita - ha proseguito Leone -. Da un’indagine condotta da AMICI su un campione di circa 1.700 pazienti è emerso che solo il 5.7% ha rifiutato la somministrazione di un biosimilare e il 37.22% ha dichiarato di non essere stato sufficientemente informato dal medico che lo segue - ha concluso -. Riteniamo pertanto necessaria una campagna di informazione e un confronto con tutti gli attori coinvolti in modo da chiarire i dubbi dei pazienti che rappresentiamo e avere delle risposte in merito alle cause del sotto-trattamento ed alle possibili soluzioni».

«Lo studio presentato oggi rappresenta una nuova tappa di un percorso che come associazione industriale abbiamo avviato nel 2018, quando abbiamo deciso di analizzare i dati di prescrizione pubblici in un primo studio che ha aperto la riflessione sul possibile sotto- trattamento di più patologie. È un percorso che abbiamo portato avanti in costante dialogo con le società scientifiche e le associazioni dei pazienti, con l’obiettivo di contribuire all’appropriatezza prescrittiva nel settore in cui operiamo e di conseguenza alla sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari» - ha spiegato Stefano Collatina, coordinatore del Gruppo Italiano biosimilari di Egualia. «Ancora una volta, come già accaduto per le malattie reumatologiche, ci troviamo faccia a faccia con delle evidenze di sotto-trattamento e con la necessità di individuarne le cause e le possibili soluzioni - ha proseguito -. Tra gli strumenti indispensabili dovrebbe figurare senz’altro l’ottimizzazione dei percorsi di cura e l’aggiornamento dei PDTA, assieme al rafforzamento dei centri specialistici e all’aggiornamento dei medici. Ma è cruciale anche - ha concluso -   che il risparmio generato dai biosimilari possa essere reinvestito nella medesima struttura che lo ha generato con accordi di gain sharing che renderebbero disponibili per gli ospedali nuove risorse da destinare ad altre esigenze di trattamento».

 

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