La Commissione Europea ha pubblicato sul proprio portale web un comunicato inerente la conformità agli standard qualitativi UE dei principi attivi prodotti nella Repubblica di Corea: sale così a sette il numero dei paesi terzi riconosciuti come dotati di una regolamentazione equivalente a quella europea e includente i principi delle buone pratiche di fabbricazione (GMP) a garanzia della qualità dei principi attivi destinate ai medicinali per uso umano immesse sul mercato dell'UE. La lista aggiornata comprende dunque, oltre alla Corea, anche Australia, Brasile,Israele, Giappone,Svizzera e Stati Uniti.
Il Ministry of Food and Drug Safety (MFDS) della Repubblica di Corea aveva richiesto nel 2015 la valutazione del proprio quadro normativo e delle attività di controllo. Tale valutazione, espletata mediante due audit condotti dalla Commissione nel 2016 e nel 2018, ha dimostrato che il quadro legislativo della Repubblica Coreana inerente la produzione di sostanze attive è tale da garantire un livello di sicurezza ed efficacia equivalente a quello dell'Unione.
L'Europa impone come è noto regole molto rigide non solo sui medicinali prodotti nel mercato interno ma anche sui prodotti importati e sui principi attivi utilizzati per produrli.
A tale proposito la direttiva FMD (Falsified Medicines Directive), cardine del nuovo sistema UE di contrasto alla contraffazione farmaceutica in vigore dal 9 febbraio in 31 Stati dello spazio economico europeo (SEE) – introduce norme precise per l’importazione di sostanze attive in tutti i Paesi UE, prevedendo che essi possano essere importati solo se accompagnati da un certificato rilasciato dalla competente autorità per le esportazioni del Paese di provenienza che certifichi standard di produzione e verifiche sul sito produttivo equivalenti a quelli previsti in Europa. Proprio in attuazione della Direttiva FMD l’industria farmaceutica europea ha finanziato la creazione dell’EMVO, l’organizzazione europea di verifica dei medicinali per consentire ai farmacisti di ogni Paese di analizzare ogni confezione di medicinale soggetto a prescrizione commercializzato in Europa, proprio per impedire che medicinali falsificati eventualmente immessi sul mercato possano essere dispensati ai pazienti europei.
Merita di essere ricordato anche che tutti farmaci e i principi attivi importati nella comunità sono comunque sottoposti a test che ne verificano la conformità alle regole dell’UE e gli ispettori europei sottopongono a regolare verifica i siti di produzione anche in territorio extra-UE.
Gli eventuali rilievi sollevati dagli ispettori determinano obbligatoriamente e automaticamente un intervento correttivo da parte delle aziende: la gamma degli strumenti a disposizione degli ispettori varia in relazione alla gravità del problema produttivo verificato e può arrivare fino alla chiusura del sito produttivo o al divieto di importazione dallo stesso (in caso di impianti extra-UE) quando si individuino gravi rischi per la salute o la sicurezza dei pazienti in relazione al mancato rispetto delle GMP.
E le stesse regole sulla verifica di conformità alla normativa comunitaria si applicano anche alle strutture in cui vengono svolti i trial clinici finalizzati all’approvazione dei medicinali e anche alle aziende che producono in conto terzi (contract manufacturing). Infine, l’Europa monitora in modo approfondito l’uso dei farmaci attraverso una intensa e costante attività di farmacovigilanza, processo attraverso il quale operatori sanitari e pazienti possono allertare le Agenzie regolatorie nazionali ed europea su qualsiasi problema associato all’uso di un medicinale.
La desensibilizzazione per i bambini con allergia all’arachide accresce il rischio di anafilassi e di altre reazioni gravi. Il dato emerge da uno studio di revisione condotto da 5 Centri internazionali – l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per l’Europa - che mette in discussione la sicurezza della cosiddetta immunoterapia orale per le allergie alimentari. La ricerca è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica The Lancet.
I ricercatori hanno confrontato i risultati di 12 indagini cliniche sull’immunoterapia orale per l’arachide (per un totale di oltre 1.000 pazienti coinvolti) scoprendo che i bambini sottoposti a desensibilizzazione avevano avuto il triplo degli episodi di anafilassi rispetto al gruppo che evitava l’allergene senza trattamenti o a cui era stato somministrato un placebo.
L’immunoterapia orale, o desensibilizzazione, è un trattamento utilizzato per rendere meno sensibile l’organismo all’alimento che scatena l’allergia attraverso la somministrazione ripetuta nel tempo e clinicamente controllata di quantità crescenti dell’allergene, fino ad arrivare a dosi di mantenimento. L’obiettivo è innalzare la soglia di tolleranza, ridurre il rischio di reazioni gravi in caso di contatto involontario e, in generale, migliorare la qualità di vita.
Efficacia e sicurezza dell’immunoterapia orale per l’allergia all’arachide sono state oggetto di molti studi. 12 di questi, i più recenti e scientificamente rilevanti, sono stati raggruppati e analizzati da un team di revisione internazionale coordinato dalla McMaster University, in Canada. Dal confronto dei dati riguardanti i 1.041 pazienti tra i 5 e i 12 anni arruolati nelle ricerche, è emerso che i bambini sottoposti a desensibilizzazione avevano avuto 222 episodi di anafilassi contro i 71 di quelli non trattati. L’iniezione di adrenalina si era resa necessaria 82 volte tra i pazienti trattati contro le 32 dei non trattati. 119, invece, i casi di altre reazioni allergiche (vomito, orticaria, coliche addominali, problemi respiratori) per i bambini trattati contro i 62 dei non trattati.
«Con il nostro studio di revisione abbiamo evidenziato che l’immunoterapia orale comporta più rischi che benefici ai bambini con allergia alimentare. La metanalisi ha riguardato nello specifico l’arachide, ma la conclusione è verosimilmente applicabile a tutti gli altri allergeni alimentari» sottolinea Alessandro Fiocchi, responsabile di Allergologia del Bambino Gesù. «La maggiore incidenza di reazioni gravi, come l’anafilassi, dipende da diversi fattori. Innanzitutto gli allergeni alimentari innescano risposte infiammatorie più violente rispetto a quelli respiratori. Ci sono poi molte variabili, come ad esempio un raffreddore, uno stato d’ansia, una intensa attività fisica, che influenzano il modo in cui il corpo interagisce con la terapia. In questi casi i livelli di protezione raggiunti con la desensibilizzazione possono abbassarsi e la somministrazione di dosi di allergene prima ben tollerate può scatenare una reazione avversa».
L’allergia alimentare colpisce circa 5 bambini su 100, con un picco nei primi 3 anni di vita, ed è scatenata dalle proteine contenute in alcuni cibi che - per un errore del sistema immunitario - vengono riconosciute come minacce, innescando la reazione infiammatoria.
La forma più grave di reazione allergica ad un alimento è l’anafilassi. Colpisce soprattutto i bambini e gli adolescenti e in età pediatrica ha una prevalenza tra l’1 e il 3%. I suoi sintomi si sviluppano molto rapidamente: basta l’ingestione, il contatto, o la semplice inalazione di minime quantità dell’allergene per scatenare orticaria, edema e gonfiore del volto, prurito e gonfiore delle estremità, rinite, congiuntivite, mancanza di fiato, tosse convulsa. In circa 3 casi su 100 si arriva alla riduzione della pressione arteriosa e allo shock anafilattico. Nel 2018, in Italia, sono stati registrati almeno 2 casi di morte per anafilassi alimentare, una a Roma e una a Pisa.
Alcune allergie alimentari, come quelle al latte e all’uovo, nel 90-95% dei casi si risolvono spontaneamente entro i 10 anni. La frutta a guscio (noci, nocciole), le arachidi e il pesce sono, invece, allergeni più aggressivi e, salvo poche eccezioni, chi è allergico a questi alimenti rimarrà tale per tutta la vita. In particolare, nei Paesi sviluppati l’allergia all’arachide colpisce circa il 2% dei bambini e l'1% degli adulti.
Alla luce dei risultati della revisione pubblicata su The Lancet, ad oggi la soluzione più sicura per gli allergici alimentari torna ad essere la prudenza nell’evitare il contatto con il cibo “incriminato”. «Se però le attuali forme di immunoterapia orale non mantengono la promessa di migliorare la qualità della vita dei pazienti, la ricerca si sta muovendo attivamente in diverse direzioni» spiega il prof. Fiocchi. «Tra queste, forme di immunoterapia orale con allergeni modificati in modo da perdere la loro pericolosità acuta; immunoterapie per alimenti eseguite mediante l’applicazione di cerotti sulla pelle e l’uso di farmaci biologici che possano modificare la risposta immunitaria». Proprio su fronte dei farmaci biologici, un recente studio del Bambino Gesù ha documentato che i bambini trattati con anticorpi anti-IgE per l’asma grave migliorano in modo sensibile anche la loro tolleranza agli alimenti allergizzanti.
Roberto Rustichelli, magistrato ordinario, nominato il 20 dicembre scorso Presidente dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato dal presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e dal presidente della Camera, Roberto Fico, avendo ricevuto il 17 aprile 2019 dal C.S.M. la autorizzazione al collocamento fuori ruolo, oggi si è insediato alla presidenza dell'Antitrust.
“Onorerò l’incarico affidatomi con gli stessi valori di indipendenza, di imparzialità e di terzietà a cui mi sono ispirato nei miei tanti anni di attività in magistratura” dichiara Rustichelli.
“Continuerò a ritenere le Istituzioni un faro per la mia vita professionale e personale, che ora mi vede in un nuovo ruolo di cui sento la grande responsabilità - conclude - per garantire l’indipendenza dell’Autorità, nonché per tutelare l’interesse dei cittadini e delle imprese”.
Roberto Rustichelli, nato nel 1961 a Ravenna, è laureato in Giurisprudenza e in Scienze economiche e gestionali. Al momento della nomina era Presidente del Collegio B del Tribunale delle Imprese di Napoli con competenza, tra l'altro, sulle controversie risarcitorie per violazione della normativa antitrust per l'intero Sud Italia, nonché Presidente di Sezione della commissione Tributaria Provinciale di Napoli. Ha ricoperto il ruolo di Vice capo di Gabinetto del ministro delle Attività Produttive ed è stato Consigliere giuridico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri in vari governi. Dal 2009 al 2013 è stato anche Membro del Comitato Nazionale per la lotta contro le frodi comunitarie.
Un’alterazione nell’espressione dell’interferone, ovvero di quel gruppo di proteine che le cellule del sistema immunitario producono in presenza di virus, può essere alla base dello sviluppo di diverse malattie autoimmuni. In uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Autoimmunity, i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e con l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, e grazie al sostegno della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), hanno scoperto nei linfociti B e nei monociti delle persone con sclerosi multipla (SM), alterazioni in diversi geni regolati dall’interferone.
“Studi svolti in precedenza avevano già individuato il ruolo significativo dei linfociti B nei meccanismi patogenetici della malattia – spiega Eliana Marina Coccia dell’ISS, a capo del progetto multicentrico FISM – La nostra indagine si è spinta oltre e ha identificato anomalie nei linfociti B e nei monociti che alterano profondamente i processi in cui sono coinvolti gli interferoni. Questi dati, se da un lato confermano l’importanza del trattamento delle forme recidivanti-remittenti e progressive della SM con anticorpi monoclonali diretti selettivamente contro i linfociti B, dall’altro aprono nuove prospettive verso cui indirizzare futuri sforzi per la messa a punto di terapie innovative centrate su questa popolazione linfocitaria”. I ricercatori dell’ISS hanno isolato sia i linfociti B che i monociti da campioni di sangue periferico di persone con SM senza trattamenti in corso e da soggetti di controllo appaiati per sesso ed età. Di questi tipi cellulari i ricercatori dell’Ospedale San Raffaele hanno analizzato i profili di espressione genica (trascrittoma) con l’ausilio del database Interferome, che è stato sviluppato dal collaboratore allo studio il Professore Paul Hertzog della Monash University in Australia e che raccoglie in maniera sistematica tutti i geni regolati dagli interferoni descritti nella letteratura scientifica mondiale.
“Questo progetto FISM ha consentito di mettere in luce numerose disregolazioni trascrittomiche nei geni regolati dagli interferoni nelle persone con SM – spiega Cinthia Farina dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – in particolare in questo studio sono state trovate anomalie geniche specifiche per tipi cellulari distinti, indicando così quelle sulle quali indagare in vista della ricerca di nuovi processi patologici e di marcatori di malattia”. “Inoltre, l’identificazione selettiva nei linfociti B di alterazioni di alcune risposte anti-virali – conclude Martina Severa dell’ISS – rende verosimile l’ipotesi in base a cui il virus di Epstein-barr abbia un forte impatto, negli individui con SM, sul controllo della patologia. Questo virus è molto diffuso (oltre il 90% degli adulti ne risulta infettato, spesso senza alcuna conseguenza), rimane latente proprio nei linfociti B della memoria per tutta la vita, e sembra aumentare il rischio di sviluppare malattie autoimmuni, tra cui la SM, in alcuni soggetti geneticamente predisposti.
Lo studio è stato possibile grazie un finanziamento di FISM assegnato all’ISS e all’IRCCS Ospedale San Raffaele. Hanno inoltre partecipato allo studio: l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, l’Università di Roma La Sapienza; l’IRCCS San Raffaele-Pisana di Roma; la Monash University di Clayton (Australia); l’Istituto Neurologico Mediterraneo (INM) Neuromed, Pozzilli (Isernia)
Nonostante tutti gli sforzi fatti nei Paesi della Regione Europea dell’OMS, la percentuale di obesità tra i bambini rimane alta: maggiore tra chi non è stato allattato al seno rispetto a chi lo è stato (16,8% vs 9,3%) e con picchi di obesità grave soprattutto tra i maschi, che in Italia toccano il 4,3%.
E’ questo lo scenario fotografato da due studi, presentati nel corso dello European Congress on Obesity, che si sta svolgendo in questi giorni a Glasgow (Regno Unito), effettuati con i dati della Childhood Obesity Surveillance Initiative (COSI) dell’OMS, a cui l’ISS partecipa con la sorveglianza OKkio alla SALUTE rappresentando l’Italia. L’indagine COSI per più di 10 anni ha misurato, in oltre 300 mila bambini ogni tre anni, il trend di sovrappeso e obesità tra gli alunni della scuola primaria (6-9 anni). Il primo studio ha rilevato tra i 21 paesi partecipanti (637 mila bimbi circa monitorati in tre raccolte dati) la presenza tra l’1% in Svezia e Moldavia e il 5,5% a Malta di bambini con obesità grave, cioè ad alto rischio di complicanze per la salute. La prevalenza di obesità severa, maggiore tra i maschi, varia significativamente da paese a paese e tocca le punte più alte nel Sud Europa.
In Italia, adottando le classificazioni OMS, la percentuale è pari a 4,3%, con una tendenza alla diminuzione negli anni. Il secondo studio mostra che tra i bambini allattati al seno per almeno sei mesi ci sono meno obesi rispetto ai piccoli che sono stati allattati al seno per meno di sei mesi e rispetto a quelli che non lo sono stati affatto. In media il tasso di obesità tra i bimbi non allattati al seno è pari al 16,8%, tra quelli allattati per meno di 6 mesi è del 13,2% e tra coloro che invece hanno preso il latte della mamma più a lungo diminuisce a 9,3%. Il fenomeno è stato osservato in 22 paesi che hanno partecipato alla quarta raccolta dati del COSI svoltasi tra il 2015 e il 2017 coinvolgendo più di 100 mila bambini.
“L’obesità nei bambini rappresenta uno dei principali problemi di sanità pubblica dei nostri tempi – afferma Angela Spinelli, Direttore del Centro Nazionale per la Prevenzione delle Malattie e la Promozione della Salute (ISS) – Si tratta senza dubbio di un fenomeno multifattoriale, con possibili gravi conseguenze a lungo termine sulla salute e sulla società intera. Come tale va affrontato prima di tutto attraverso la prevenzione, a cominciare dall’allattamento per poi proseguire con programmi e iniziative nei bambini e giovani che aiutino ad effettuare scelte salutari. Ma nel caso di obesità grave bisogna garantire anche i servizi per aiutare questi bambini e le loro famiglie a contrastarla. In Italia negli ultimi anni abbiamo osservato una lieve diminuzione del fenomeno ma è ancora una sfida aperta”.
Doppio addio per Mauro Giombini che questo mese conclude il proprio lungo mandato in Comifar - prima come AD in Comifar Distribuzione SPA poi come Presidente della Holding del Gruppo, leader della distribuzione farmaceutica in Italia - e si dimette dalla carica di Presidente ADF.
A Giombini, che ha presieduto ADF da maggio 2014, succede, a termini di Statuto, il vice-Presidente Alessandro Morra, fondatore e Presidente della Sofarmamorra SPA, con il compito di condurre in tempi brevi il Consiglio Direttivo alla nomina del nuovo Presidente.
Serve un'azione immediata, coordinata e ambiziosa per scongiurare una potenziale crisi da resistenza ai farmaci che sarebbe a dir poco disastrosa. A sostenerlo il Gruppo di coordinamento delle Nazioni Unite sulla resistenza antimicrobica che ha redatto per le Nazioni Unite il rapporto "No Time To Wait: securing The Future From Drig-Resistant Infections": "Se non si interviene - scrivono - le malattie resistenti ai farmaci potrebbero causare 10 milioni di morti ogni anno entro il 2050 e danni all'economia catastrofici come quelli causati dalla crisi finanziaria globale del 2008-2009".
Secondo gli esperti, entro il 2030, la resistenza antimicrobica potrebbe ridurre in estrema povertà fino a 24 milioni di persone. Attualmente sono almeno 700.000 le persone che muoiono ogni anno a causa di malattie resistenti ai farmaci, tra queste 230.000 muoiono di tubercolosi che non risponde alle cure. Ma la situazione si sta progressivamente aggravando: sempre più malattie comuni, tra cui infezioni del tratto respiratorio, infezioni trasmesse sessualmente e infezioni del tratto urinario, non sono più curabili; le procedure mediche salvavita stanno diventando molto più rischiose e i nostri sistemi alimentari sono sempre più precari. "Il mondo sta già pagando le conseguenze economiche e sanitarie di medicine cruciali che diventano inefficaci - concludono . - Senza investimenti da parte dei paesi in tutte le fasce di reddito, le generazioni future dovranno affrontare gli effetti disastrosi di una resistenza antimicrobica incontrollata".
Ancora una volta - riconfermando che salute umana, animale, alimentare e ambientale sono strettamente interconnesse - il rapporto sollecita l'adozione dell'approccio "One Health", sollecitando i Paesi ad istituire sistemi normativi più rigorosi e sostenere programmi di sensibilizzazione per un uso responsabile e prudente degli antimicrobici da parte dei professionisti di salute umana, animale e vegetale, ad investire nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie per combattere la resistenza antimicrobica e ad abolire l'uso di antimicrobici d'importanza critica come promotori della crescita in agricoltura.
Convocato su richiesta dei leader mondiali dopo la prima riunione ONU ad alto livello sulla resistenza agli antimicrobici nel 2016, il gruppo di esperti ha riunito partner di tutte le Nazioni Unite, organizzazioni internazionali, esperti con esperienza in materia di salute umana, animale e vegetale, ma anche di alimentazione umana ed animale, di commercio, dello sviluppo e dell'ambiente, per formulare un piano complessivo per la lotta contro la resistenza antimicrobica. Il documento riflette un rinnovato impegno per l'azione collaborativa a livello globale da parte dell'Organizzazione mondiale per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), dell'Organizzazione mondiale di salute animale (OIE) e dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Stpulare in tempi rapidi il Patto per la Salute, sia per garantire le condizioni necessarie all’aumento del fabbisogno sanitario nazionale (MEF permettendo), sia perché la sanità pubblica non può oggi reggere ad un conflitto tra Governo e Regioni.BE sul DEF 2019 sono emerse forti preoccupazioni per la sanità pubblica sia perché la crescita economica del Paese è stata drammaticamente ridimensionata, rendendo poco realistici gli aumenti previsti dalla Legge di Bilancio per il 2020-2021, sia perché il rapporto spesa sanitaria/PIL rimane stabile sino al 2020 per poi ridursi dal 2021. «Se da un lato tali preoccupazioni – afferma Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – vengono confermate dalle audizioni dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio e della Corte dei Conti, dall’altro stupisce la sbrigativa superficialità con cui le risoluzioni di Camera e Senato sul DEF 2019 ignorano la polveriera sanità».
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, snocciolando i drammatici numeri del disavanzo, conferma che esistono pochi margini per una spending review e che “ulteriori tagli alla spesa sanitaria rischierebbero di incidere sulla qualità dei servizi offerti oppure sul perimetro dell’intervento pubblico in questo settore”. La Corte dei Conti, sottolineando che “al termine del 2018 […] non risultano sottoscritti gli accordi relativi alle aree della dirigenza sanitaria” rileva preoccupazioni per “la forte riduzione di personale, anche in relazione al tempo occorrente per l’assunzione di nuovo personale, con particolare riferimento a settori come la sanità […] in cui la diminuzione degli addetti rischia di incidere sull’erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni e sulla qualità dei servizi”.
A fronte di queste preoccupazioni per la tenuta della sanità pubblica, le speculari risoluzioni di Camera e Senato si limitano ad impegnare il Governo “a procedere dal 2019 ad un piano di assunzioni che argini il fenomeno della "fuga dei cervelli" e supporti la promozione di innovazione e ricerca in campo sanitario, valorizzando la funzione dei centri sanitari di nuova generazione e investendo in politiche di formazione ed inserimento lavorativo delle nuove professionalità, ad aggiornare a livello regionale il parametro di riferimento della spesa per il personale degli enti del SSN”.
«Il DEF 2019 – puntualizza il Presidente – indica il nuovo Patto per la Salute come strumento di governance per ottimizzare la spesa pubblica, ma in realtà il Patto condiziona anche le risorse per la sanità, come previsto dalla Legge di Bilancio 2019». Infatti, oltre al miliardo stanziato per il 2019, le risorse aggiuntive previste per il biennio 2020-2021 (+€ 2 miliardi nel 2020 e +€ 1,5 miliardi nel 2021) sono condizionate dalla stipula di un’intesa Stato-Regioni di un nuovo Patto per la Salute contenente “misure di programmazione e di miglioramento della qualità delle cure e dei servizi erogati e di efficientamento dei costi”.
La scadenza per la sottoscrizione del Patto era fissata al 31 marzo, ma visto che il suo mancato rispetto non avrebbe avuto conseguenze le motivazioni del ritardo inizialmente sono imputabili al dilatarsi della “fase esplorativa”. In dettaglio:
«Mentre Governo e Regioni bruciavano 4 mesi per annusarsi a vicenda – precisa il Presidente – gli scenari politici, economici e tecnici tuttavia sono mutati, rendendo la strada per la stipula del Patto per la Salute sempre più in salita e lastricata di ostacoli».
«La Fondazione GIMBE, sulla base delle proprie valutazioni indipendenti – conclude Cartabellotta – invita Infatti, il rischio concreto, oltre che di ridurre ulteriormente l’equità di accesso alle cure, in particolare per le fasce socio-economiche più deboli e al Centro-Sud, è di peggiorare gli esiti di salute inclusa l’aspettativa di vita».
E' la settimana dedicata ai "vaccines heroes", ovvero a tutte le persone che contribuiscono ad assicurare che tutti siano protetti contro le malattie prevenibili da vaccinazione: in prima linea i ricercatori che sviluppano vaccini sicuri ed efficaci, i responsabili delle politiche sanitarie che assicurano l’accesso equo alle vaccinazioni, gli operatori sanitari che somministrano i vaccini, i genitori che scelgono di vaccinarsi e di vaccinare i propri figli per proteggerli da malattie gravi, e tutti coloro che si informano sui vaccini da fonti affidabili e condividono informazioni corrette sulle vaccinazioni.
A segnalare l'avvio della Settimana europea delle Vaccinazioni, che si celebra ogni anno nella Regione Europea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per ricordare che l’immunizzazione protegge da malattie gravi e potenzialmente mortali e costituisce uno dei più potenti strumenti di prevenzione a disposizione della sanità pubblica sono Antonietta Filia, Fortunato D’Ancona e Maria Cristina Rota, del Dipartimento Malattie Infettive dell'ISS, in un primo piano pubblicato nel sito dell'Istituto in cui si fa il punto sui numeri delle vaccinazioni nel mondo e nel nostro Paese.
I successi. Nel mondo, le vaccinazioni prevengono ogni anno fino a 3 milioni di decessi (7.000 al giorno) e ci proteggono da malattie gravi come il morbillo, la polio, la difterite, il tetano, e altre. Grazie alla vaccinazione, il vaiolo è stato eradicato ed il numero di casi di polio nel mondo è diminuito da 350.000 casi nel 1988 a 33 casi lo scorso anno. Il numero di casi di morbillo è drasticamente diminuito e la mortalità per questa malattia ridotta dell’84% dal 2000 (550.000 morti nel 2000, circa 90.000 nel 2016). Il tetano neonatale è stato eliminato e altre malattie gravi, come la difterite, sono diventate rare.
Le coperture. Proprio grazie a questi successi però, le malattie prevenibili con le vaccinazioni sono sempre meno percepite come un pericolo, e l’attenzione verso l’importanza dei vaccini è diminuita. Negli ultimi due anni, a causa di Coperture Vaccinali (CV) non ottimali, nel mondo si sono verificate diverse epidemie di morbillo e difterite. Da luglio 2016, infatti, è in corso una vasta epidemia di difterite in Venezuela, con oltre 1.500 casi confermati e 270 decessi. Sono inoltre in corso epidemie di morbillo in vari Paesi che avevano precedentemente raggiunto l’eliminazione, sia nella Regione Europea, sia nel resto del mondo. In Italia, nel 2017 e 2018 si è verificata una vasta epidemia di morbillo con oltre 8.000 casi e 13 morti.
Dal 2013 al 2016, è stata registrata in Italia una diminuzione delle CV per diverse malattie prevenibili da vaccino e, nel 2017 è stato pertanto esteso l’obbligo vaccinale da 4 a 10 vaccinazioni. Questa decisione è stata innescata soprattutto dalla preoccupazione destata dalla situazione epidemiologica del morbillo (malattia per cui l’Italia ha aderito all’obiettivo OMS di raggiungere l’eliminazione) e dal rischio di ricomparsa di malattie ormai eliminate o sotto controllo in Italia.
Con l’applicazione della Legge sull’obbligo vaccinale, le CV nei confronti delle malattie prevenibili per le quali è previsto l’obbligo sono aumentate già a partire dal 2017. Un ulteriore aumento è stato registrato in una rilevazione straordinaria effettuata nel 2018 nelle coorti di bambini nati nel 2015, 2014 e 2010. La CV nei confronti della polio (usata come proxy per le vaccinazioni contenute nel vaccino esavalente) nei bambini nati nel 2015, ha raggiunto nel 2017 il 94,6% a livello nazionale e il 95,5% nel primo semestre del 2018, con un valore superiore alla soglia del 95% (la minima raccomandata dall’OMS) in 13 Regioni. Per quanto riguarda il morbillo, la copertura nazionale nei bambini nati nel 2015, per la prima dose di vaccino contro il morbillo (che si effettua a 12-15 mesi di età) ha raggiunto il 91,8% nel 2017 e 94,2% nei primi sei mesi del 2018 (rispetto a 87,3% nel 2016, nei bambini di 24 mesi di età). La CV per la seconda dose di vaccino contro il morbillo (che si effettua a 5-6 anni di età), nella coorte di bambini nati nel 2010, è stata 85,7% nel 2017 e 90,1% nel 2018.
Obiettivo morbillo. Il morbillo è altamente contagioso e la sua eliminazione richiede livelli di CV maggiori o uguali al 95% per due dosi di vaccino. I Paesi di tutte le 6 Regioni OMS hanno fissato obiettivi di eliminazione di questa malattia. Nella regione Europea, 37/53 Paesi hanno eliminato il morbillo e sei hanno interrotto la trasmissione dell’infezione per un periodo di almeno 12 mesi. L’Italia rimane uno dei 10 Paesi dove il morbillo è ancora endemico, questo a causa delle scarse coperture vaccinali nel corso degli anni che hanno portato all’accumulo di ampie quote di popolazione suscettibili all’infezione. Per interrompere la trasmissione endemica del morbillo nel nostro Paese, oltre ad aumentare le coperture vaccinali tra i bambini piccoli (prima dose a 12 mesi e seconda dose a 5-6 anni), è necessario mettere in atto strategie e attività supplementari di vaccinazioni indirizzate alle fasce di età suscettibili, soprattutto giovani adulti nati a partire dalla fine degli anni 70, quando la copertura vaccinale contro il morbillo era molto bassa e si effettuava una sola dose di vaccino. Nel 2017, la CV nei 18enni (nati nel 1999) era solo del 81,2% per la prima dose e 77,7% per la seconda dose
Questi i suggerimenti degli esperti dell'Iss su come ciascuno può contribuire all'attività di prevenzione resa possibile dale coperture vaccinali:
Da segnalare sul tema anche le dichiarazioni del direttore dell'Ema, Guido Rasi, pubblicate sul sito dell'Agenzia europea dei medicinali.
Sono solo quattro, finora, le Regioni che avrebbero dato notizia del recepimento del Piano Nazionale sulle liste d'attesa nei tempi previsti. A sottolinearlo, in un editoriale, è Tonino Aceti, portavoce della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche (il più numeroso d’Italia ,oltre 450mila iscritti), che - alla scadenza della data di attuazione del Piano nazionale di governo delle liste di attesa 2019-2021 - fa il punto sulla sua applicazione nelle Regioni.
Attraverso una prima e rapida ricognizione svolta anche sul web (terminata il 19 aprile) - si legge nell'editoriale pubblicato sul sito della FNOPI - le realtà regionali che sembrerebbero aver dato notizia del recepimento del Piano Nazionale entro 60 giorni dall’intesa Stato-Regioni, dunque entro il 22 aprile, sono solo Puglia, Marche, Emilia-Romagna, Valle D’Aosta. La Basilicata ha scelto per il momento la strada di accordi interaziendali aventi ad oggetto il recepimento del Piano Nazionale. Il Veneto e la Toscana invece dovrebbero procedere a strettissimo giro con il recepimento.
“Alcune delle Regioni non citate – commenta Aceti - potrebbero aver già recepito e non dato comunicazione all’esterno, altre certamente saranno al lavoro per recepirlo a breve, altre ancora, invece, saranno più in ritardo. Proprio per questo, al fine di garantire l’effettività delle decisioni che lo Stato e le Regioni assumono, nonché pari opportunità di cura in tutto il Paese, sarebbe necessario che il Ministero della Salute, proprio per il suo ruolo di indirizzo, coordinamento e di verifica dei Livelli Essenziali di Assistenza, avviasse da subito una ricognizione stringente nei confronti delle Regioni sullo stato di recepimento del Piano Nazionale di Governo delle Liste di attesa e sull’adozione dei Piani Regionali, nonché sui motivi dei rallentamenti”.
E Aceti sottolinea anche un altro aspetto importante sul quale occorre mantenere alta l’attenzione: il riparto tra le Regioni dei 350 milioni di euro stanziati con l’ultima Legge di Bilancio (150 milioni di euro per l’anno 2019, 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2020 e 2021) per l’implementazione e l’ammodernamento delle infrastrutture tecnologiche legate ai sistemi di prenotazione elettronica per l’accesso alle strutture sanitarie.
Risorse che dovevano essere ripartite da un decreto del ministro della Salute, di concerto con l’Economia e d’intesa con le Regioni da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa legge Bilancio, ma “ad oggi – ricorda Aceti - ancora non si ha alcuna notizia in merito al riparto e il ritardo accumulato rispetto alla tabella di marcia indicata dalla Legge è già pari a 1,5 mesi”.
“L’effettiva e tempestiva attuazione in tutte le Regioni del Piano nazionale di Governo delle liste di attesa – è il commento del portavoce FNOPI - del Piano Nazionale della Cronicità, il rilancio degli investimenti nelle politiche del personale sanitario, l’innovazione dei modelli organizzativi del SSN, nonché la garanzia di un adeguato finanziamento del Servizio Sanitario Pubblico sono alcuni dei tasselli necessari per garantire una maggiore, più tempestiva ed equa accessibilità ai servizi sanitari. Temi, quelli dell’accessibilità e dell’equità, sui quali si gioca la fiducia dei cittadini nei confronti della Sanita Pubblica”.
Bugiardini troppo difficili per 35 biosimilari autorizzati dall’EMA. È quanto emerge da uno studio pubblicato su BMJ Open che ha valutato la leggibilità dei fogli illustrativi disponibili online per 35 biosimilari autorizzati dall’Agenzia europea al 31 agosto 2017.
I ricercatori hanno valutato i volantini in base alle linee guida dell'UE che auspicano un foglietto illustrativo "scritto e progettato per essere chiaro e comprensibile, consentendo agli utilizzatori di agire in modo appropriato". La leggibilità dei bugiardini è stata valutata utilizzando la formula "Flesch-Kincaid", che misura obiettivamente la difficoltà di comprensione di una frase basandosi sul numero totale di parole, frasi e sillabe in essa contenute.
I materiali informativi relativi alla salute dovrebbero avere una leggibilità adeguata al livello di comprensione di un dodicenne e non dovrebbero essere eccessivamente lunghi per rendere meno complesso il messaggio. I foglietti analizzati hanno evidenziato invece lunghezze ampiamente diversificate - da 800 a oltre 3.000 parole – e sono stati ritenuti tutti troppo difficili da capire.
Le sezioni più ostiche sono risultate essere quelle relative all’indicazione terapeutica (che cos’è; a cosa serve) e agli effetti collaterali, richhe di termini medici complessi.
Titolari dei foglietti più leggibili le eparine, mentre per tutti gli altri biosimilari la leggibilità del foglietto è risultata essere inferiore alla leggibilità standard, secondo la scala Flesch Reading Ease.
La scarsa leggibilità del “bugiardino” - hanno specificato i ricercatori - non è in alcun modo correlato al fatto che si tratti di un biosimilare piuttosto che di un originator. Ovvero: sono illegibili in entrambi i casi. E il fenomeno è sufficientemente preoccupante dato che la scarsa leggibilità può determinare disinteresse o allarme nei pazienti e una conseguente ridotta aderenza al trattamento per terapie destinate a patologie croniche e/o gravi.
Per semplificare la comprensione dei foglietti illustrativi, i ricercatori raccomandano ai produttori di applicare le formule di leggibilità e ottenere le opinioni dei pazienti sulla leggibilità prima di pubblicare i “bugiardini”.
Il Parlamento Europeo riunito stamattina a Strasburgo in sessione plenaria ha dato il via libera definitivo al Regolamento europeo sull'SPC manufacturing Waiver, destinato a rappresentare un punto di svolta fondamentale per il comparto dei produttori di generici e biosimilari.
L’introduzione dell’SPC Waiver rappresenta il primo caso in Europa in cui si è riaperta una legislazione sulla proprietà intellettuale al fine di modificarla a favore dell’industria manifatturiera europea: la normativa consentirà infatti ai produttori di generici e biosimilari con sede nell’UE, di produrre durante la vigenza del certificato di protezione supplementare (Supplementary Protection Cerificate - SPC), una versione generica o biosimilare di un medicinale ancora protetto da SPC esclusivamente allo scopo di esportare in un mercato extra-UE dove il brevetto è scaduto o non è mai esistito o di stoccarlo per immetterlo in commercio il giorno dopo la scadenza brevettuale in UE.
Attualmente, invece, ciò non era possibile durante l’SPC che estende fino a ulteriori 5 anni la durata già ventennale dei brevetti farmaceutici europei, per consentire il recupero del tempo intercorso tra il deposito del brevetto e l’ottenimento dell’AIC dei prodotti. La conseguenza è che le aziende europee sono esposte ad una pesante concorrenza da parte dei produttori extra-Ue, non soggetti ad analoghe restrizioni sulla proprietà intellettuale, e costrette a delocalizzare gli impianti stringendo accordi vincolati con i Paesi ospiti.
Fortemente sostenuta dal Ministero dello Sviluppo Economico italiano, specie nell’ultima parte dell’iter legislativo, l’introduzione dell’SPC Waiver prevede due novità fondamentali:
Nei primi tre anni di entrata in vigore della normativa però la deroga potrà essere richiesta solo per i nuovi SPC, ovvero quelli richiesti a partire dalla data di entrata in vigore del Regolamento, dunque operativamente dal luglio 2022. Successivamente potrà essere estesa anche a quelli di più vecchia data ma divenuti efficaci dopo l’entrata in vigore dello stesso.
Tra le clausole di salvaguardia introdotte nel corso dell’iter, l’obbligo per il produttore di notifica di alcune informazioni sia al detentore dell’SPC che all’Ufficio nazionale brevetti; l’obbligo di adeguata informazione a tutti coloro che sono coinvolti nella commercializzazione del prodotto del fatto che esso, in vigenza di SPC, può essere immesso solo sul mercato extra-UE; l’obbligo di apporre sulla confezione il logo specifico previsto dal Regolamento, indicando chiaramente che esso è destinato esclusivamente all’esportazione.
Obiettivo della nuova disciplina sarà quello di contribuire alla competitività dell'Europa come centro per la ricerca e lo sviluppo nel settore farmaceutico: secondo le stime della Commissione UE l’attuazione delle nuove regole dovrebbe generare nei prossimi 10 anni, un fatturato annuo netto aggiuntivo superiore a 1 miliardo di euro, che potrebbe tradursi nello stesso arco di tempo in 20.000-25.000 nuovi posti di lavoro.
«L’industria farmaceutica nazionale è ai primi posti in Europa per valore della produzione: in media il 40-45% del fatturato deriva dall’export anche per il comparto degli equivalenti e dei biosimilari - commenta Enrique Häusermann, presidente Assogenerici. - In questo quadro la norma sull’SPC manufacturing waiver rende plausibile il nostro auspicio di poter aumentare fino al 70% la quota di fatturato derivante dalle nostre esportazioni, che attualmente si indirizzano soprattutto verso l’Europa e il Nord America e – in quota minore – verso l’Asia Orientale».
«In un’ottica di comparto allargato - prosegue - va anche ribadito che si tratta senz’altro di una strategia win-win: non si intacca in alcun modo la tutela garantita al titolare dell’SPC e si opera a vantaggio soprattutto delle PMI, che potranno competere sempre più ad armi pari con le aziende non europee, tornando ad essere nuovamente dei player strategici anche per le aziende multinazionali».
«Un percorso virtuoso che conduca le grandi aziende a scegliere il proprio partner tra le aziende europee o extraeuropee potrebbe anche favorire il rientro di produzioni in Italia grazie a partnership innovative tra multinazionali e CMO - prosegue Häusermann - e questa norma avrà implicazioni positive anche per altri settori contigui nell’indotto farmaceutico, in relazione ai quali il nostro Paese vanta primati di autentica eccellenza, senza dimenticare quello dei principi attivi per il quale la Commissione ha stimato vendite aggiuntive pari a 254 milioni di euro e la creazione di 2000 nuovi posti di lavoro diretti».
«Emergeranno certamente criticità applicative – conclude Häusermann - ma è tempo per il settore produttivo del farmaco di fare rete e alleanza, per sfruttare al meglio questa nuova opportunità».
L’Avvocatura Generale dello Stato e Consip hanno sottoscritto un Protocollo d’intesa che disciplina il patrocinio per larappresentanza e difesa in giudizio di Consipin tutte le controversie amministrative, civili e penali riguardanti leattività del Programma di razionalizzazione della spesa, gestito dalla Società per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF).
Il Protocollo – che dà attuazione alla misura prevista nella Legge di Bilancio 2019 (legge 30 dicembre 2018 n. 145, art. 1, c. 771) – è stato sottoscritto dall’Avvocato generale dello Stato, Massimo Massella Ducci Teri e dall’Amministratore delegato di Consip, Cristiano Cannarsa. L’azione di Consip – centrale di committenza dello Stato – sostenuta dall’Avvocatura Generale nel patrocinio per la rappresentanza e difesa in giudizio evidenzia ulteriormente il riconoscimento del ruolo della Società nell’interesse esclusivo dello Stato.
Commenta l’Amministratore Delegato di Consip, Cristiano Cannarsa “Fin dal suo insediamento, nel luglio 2017, il Consiglio di amministrazione ha evidenziato l’opportunità di ricorrere al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. La Legge di Stabilità 2019 ha dato corso a questo auspicio ed oggi, con grande soddisfazione, ne viene data la necessaria formalità. Consip viene ulteriormente rafforzata nella sua azione al servizio dello Stato”.
Commenta l’Avvocato generale dello Stato, Massimo Massella Ducci Teri “L’affidamento all’Avvocatura dello Stato di un contenzioso così complesso conferma la fiducia del Legislatore nel nostro Istituto. Da parte nostra affronteremo questo nuovo importante compito con il massimo impegno e professionalità, al fianco di Consip a sostegno del suo ruolo centrale per il funzionamento della pubblica amministrazione e il suo ammodernamento”.
Contraddizioni, inertezza e stime sulla spesa sanitaria incongruenti con le risorse già assegnate per il 2019. La Fondazione GIMBE bolla così il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2019 sottolineando che anche per gli anni 2020-2021 le risorse continuano a dipendere "da utopistiche previsioni di crescita economica", mentre "su tutto aleggia lo spettro della clausola di salvaguardia , ovvero il blocco di 2 miliardi di spesa pubblica che sicuramente colpirà la sanità".
Secondo ul Documento, infatti, nel triennio 2020-2022 il PIL nominale dovrebbe crescere in media del 2,5% per anno e l’aumento della spesa sanitaria attestarsi sul tasso medio annuo dell’1,4%. In termini finanziari la spesa sanitaria aumenterebbe così dai € 119.953 milioni stimati per il 2020 ai € 121.358 nel 2021 ai € 123.052 milioni nel 2022. Per l’anno in corso, invece, a fronte di una crescita del PIL nominale dell’1,2%, il DEF 2019 stima una spesa sanitaria di € 118.061 milioni che corrisponde ad una crescita del 2,3% rispetto ai € 115.410 del 2018
«Le previsioni di crescita economica del Paese – commenta in proposito Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – emergono in tutta la loro evanescenza se si confrontano le stime messe nero su bianco appena 6 mesi fa». La Nota di aggiornamento del DEF 2018 (NaDEF) infatti aveva azzardato per il 2019 una crescita del PIL del 3,1%, che sarebbe dovuto schizzare al 3,5% nel 2020 per poi tornare al 3,1% nel 2021: tali previsioni sono precipitate all’1,2% per il 2019 (-1,9%), al 2,6% per il 2020 (-0,9%) ed al 2,5% per il 2021 (-0,6%).
Anche se le stime fossero corrette, la spesa sanitaria non potrà coprire nemmeno l'aumento dei prezzi sia perché cresce meno del PIL nominale, sia perché l’indice dei prezzi del settore sanitario è superiore all’indice generale dei prezzi al consumo e che l’inflazione media si è attestata oltre l’1% (1,2% nel 2017 e nel 1,1% nel 2018). «In altre parole – puntualizza Cartabellotta – la crescita media della spesa sanitaria dell’1,4% nel triennio 2020-2021 stimata dal DEF 2019 nella migliore delle ipotesi potrà garantire al SSN lo stesso potere di acquisto solo se la ripresa economica rispetterà previsioni più che ottimistiche, ovvero una crescita media del PIL del 2,5% per il triennio 2020-2021».
«Delle cifre assolute riportate nel DEF – continua il Presidente – è bene non fidarsi, soprattutto nel medio termine, perché le risorse assegnate alla sanità dalle Leggi di Bilancio risultano sempre inferiori alle stime del DEF sulla spesa sanitaria». Ad esempio, per l’anno 2018 la stima di € 121,3 miliardi di spesa sanitaria del DEF 2014 è precipitata a € 117,7 con il DEF 2015, quindi a € 116,2 con il DEF 2016 e a € 115,1 con il DEF 2017, per arrivare ad un finanziamento reale di € 113,4 miliardi con la Legge di Bilancio 2018».
Nel DEF 2019 il rapporto spesa sanitaria/PIL rimane identico al 2018 (6,6%) per gli anni 2019 e 2020, per poi ridursi al 6,5% nel 2021 e al 6,4% nel 2022. «Queste previsioni – afferma Cartabellotta – smentiscono l’inversione di tendenza incautamente annunciata dal Premier Conte nel giugno 2018 in occasione del discorso per la fiducia e sono identiche a quelle dei DEF (e dei Governi) precedenti, dove all’incremento atteso della crescita economica corrisponde sempre una riduzione del rapporto spesa sanitaria/PIL. Questa strategia di finanza pubblica documenta inequivocabilmente che per tutti i Governi che si sono succeduti negli anni, compreso il cosiddetto Governo del Cambiamento, la sanità non ha mai rappresentato una priorità politica. Infatti, quando l’economia è stagnante la sanità si trasforma automaticamente in un bancomat al portatore, mentre in caso di crescita economica i benefici per il SSN non sono proporzionali, rendendo di fatto impossibile un rilancio del finanziamento pubblico».
Analizzando le previsioni per l’anno 2019, emergono infine alcune incongruenze, visto che il DEF stima una spesa sanitaria di € 118.061 milioni con un aumento rispetto al 2018 di ben € 2.651 milioni, in buona parte da destinare al personale sanitario. Il DEF 2019 precisa infatti che per i redditi da lavoro dipendente si stima un livello di spesa pari a € 36.502 milioni, ovvero quasi un miliardo di euro in più rispetto al 2018, quando la spesa era di € 35.540 milioni. «Tuttavia – puntualizza Cartabellotta – se la Legge di Bilancio 2019 ha già destinato alla sanità solo € 1 miliardo, peraltro senza alcun vincolo sul personale, da tali previsioni emergono due legittimi interrogativi. Il DEF intende certificare per l’anno 2019 un aumento del deficit per la sanità di € 1.651 milioni? Con quali modalità il Governo intende convincere le Regioni a destinare un miliardo, di fatto quello previsto dall’aumento del FSN 2019, interamente al personale sanitario?».
In conclusione, dalle analisi GIMBE del DEF 2019 emergono alcune ragionevoli (e preoccupanti) certezze per il Servizio Sanitario Nazionale:
«Il DEF 2019 – conclude Cartabellotta – se da un lato mette a nudo tutte le incertezze sulla crescita economica del Paese, dall’altro aumenta le preoccupazioni per la sanità per tre ragioni fondamentali: innanzitutto, per il 2019 le stime sono incongruenti con le risorse assegnate dalla Legge di Bilancio; in secondo luogo, se le stime per il 2020-2021 sono allineate con gli incrementi previsti del FSN, questi oltre che alla sottoscrizione di un Patto per la Salute ancora in stallo, sono legati ad utopistiche previsioni di crescita economica; infine, su tutto aleggia lo spettro della clausola di salvaguardia, ovvero il blocco di € 2 miliardi di spesa pubblica in caso di deviazione dall’obiettivo di indebitamento netto, che sicuramente colpirà la sanità».
Promuovere politiche di mercato competitive e sostenibili; valutare la coerenza del quadro regolatorio attuale puntando ad una armonizzazione regolatoria globale a vantaggio della salute pubblica e dei singoli pazienti; rafforzare l’ecosistema produttivo farmaceutico europeo sfruttando la leadership già consolidata in tecnologie e ricerca e creando condizioni di parità tra aziende Ue ed extra-Ue; massimizzare la collaborazione con la comunità sanitaria per garantire l’accessi tempestivo dei pazienti ai trattamenti farmaceutici di cui necessitano e la sostenibilità dei sistemi sanitari.
Sono alcune delle richieste qualificanti di #Together4Health, il manifesto lanciato da Medicines for Europe – l’associazione europea dei produttori di farmaci generici e biosimilari – in vista del voto di fine maggio, nella convinzione che le elezioni europee siano “un’opportunità per migliorare le politiche comunitarie verso un accesso migliore e più equo ai farmaci per tutti i pazienti”.
“Gli europei credono in un accesso equo all’assistenza sanitaria attraverso servizi sanitari nazionali di valore ma quando si tratta di farmaci ci si trova davanti a politiche frammentarie, a sfide per la sostenibilità e alla negazione dell’accesso ad alcuni tra i medicinali più importanti” sottolinea il documento, che elenca i quattro pilastri fondamentali che dovrebbero costituire la base della politica farmaceutica Ue:
“Grazie a oltre 400 impianti produttivi dislocati in tutto il continente il nostro coparto fornisce quasi il 70% dei medicinali distribuiti in Europa - conclude il manifesto. - Oggi si compete a livello globale ed è pertanto fondamentale garantire un ecosistema sostenibilie che stimoli l’industria farmaceutica Ue a diventare un volano di crescita dell’economia e dell’occupazione”.
Manca appena una settimana all'approvazione definitiva del Regolamento europeo sull'SPC Waiver: il testo sarà licenziato dal Parlamento Ue tra il 16 e il 17 aprile e rappresenterà un punto di svolta fondamentale per il comparto dei produttori di generici biosimilari e biosimilari, aprendo importanti opportunità di crescita per il comparto delle sostanze attive e delle produzioni conto terzi, con l'Italia in prima fila.
A fare il punto sulle prospettive offerte dalla riforma la tavola rotonda organizzata ieri da NCF - Tecniche Nuove Healthcare nell'ambito di Pharmintech, l’appuntamento internazionale dedicato all'industria farmaceutica, nutraceutica, cosmeceutica e delle biotecnologiea, nutraceutica, cosmeceutica e delle biotecnologie, in corso fino a domani alla Fiera di Bologna.
Ad illustrare le novità in arrivo Sergio Napolitano, dell'Ufficio legale di Medicines for Europe, l’associazione europea che raggruppa i produttori di medicinali generici e biosimilari che ha coniato lo slogan “Make it in Europe again!” proprio per sottolineare l’impatto che potrebbe derivare dall’entrata in vigore della deroga ai certificati di protezione complementare, attesa per il 2022.
“L’SPC manufacturing waiver rappresenta il primo caso in Europa in cui si è riaperta una legislazione sulla proprietà intellettuale al fine di modificarla a favore dell’industria europea - ha sottolineato Napolitano - anche se nel testo permangono alcune criticità come ad esempio la previsione che le attività finalizzate alla produzione delle versioni generiche dei medicinali il cui certificato di protezione è in scadenza possano iniziare solo 6 mesi prima della scadenza dello stesso".
“Ma senza SPC, d’altra parte, al day-1 sarebbero entrate sui mercati europei produzioni provenienti da paesi extra-Ue, una situazione chiaramente inaccettabile sul piano della competitività”, ha sottolineato il rappresentante di Assogenerici, Massimiliano Del Frate, che ha fatto il punto sulle prospettive del comparto italiano.
"L’industria farmaceutica nazionale è ai primi posti in Europa per valore della produzione e in media il 40-45% del fatturato deriva dall’export: da questo punto di vista il picco massimo è stato raggiunto nel 2017, quando il comparto ha destinato complessivamente all’export l’86% della produzione. Per quanto riguarda il comparto degli equivalenti e dei biosimilari - allineato sulle stesse performance - merita di essere sottolineato che oltre il 50% di quelli venduti in Italia sono prodotti in stabilimenti presenti sul territorio nazionale, a dimostrazione del valore e dell’importanza del nostro comparto - ha spiegato. - In questo quadro la norma sull’SPC manufacturing waiver è di particolare importanza sia per i prodotti finiti che per i principi attivi: è un fattore cruciale di competitività grazie al quale diventa plausibile l’obiettivo di aumentare fino al 70% la quota di fatturato derivante dalle esportazioni che attualmente si indirizzano soprattutto verso l’Europa e il Nord America e – in quota minore – verso l’Asia Orientale".
"La norma sull’SPC waiver - ha proseguito Del Frate - può rappresentare un nuovo punto di svolta, contribuendo a consolidare la leadership europea nel settore della produzione farmaceutica non intaccando minimamente la tutela garantita al titolare dell’SPC e risultando particolarmente vantaggiosa soprattutto per le PMI, che non sarebbero più costrette ad affidarsi ad aziende non europee che possono comportare problemi in relazione alla qualità e affidabilità delle forniture. Un percorso virtuoso che conduca le grandi aziende a scegliere il proprio partner tra le aziende europee o extraeuropee potrebbe anche favorire il rientro di produzioni in Italia grazie ad un riassetto della produzione basato su partnership innovative tra multinazionali e CMO. Da non trascurare infine - ha concluso - il fatto che la norma avrà implicazioni positive anche per altri settori contigui come quello dei principi attivi, che vede una presenza particolarmente significativa nel nostro Paese nonché per tutto l’indotto farmaceutico, in relazione al quale il nostro Paese vanta primati d’eccellenza come quello della produzione di macchinari, come dimostra la manifestazione che ospita questo evento".
Sulle qualità e sulle prospettive di creascita del comparto italiano dei produttori di principi attivi farmaceutici (API) è intervenuto il presidente di Aschimfarma, Paolo Russolo: “Le multinazionali del farmaco negli ultimi anni hanno confermato il loro orientamento ad affidare incarichi di custom a imprese europee, e in particolare italiane”, ha confermato, illustrando le caratteristiche di un comparto d'eccellenza che tuttavia riscontra tra le tante criticità quella del reperimento degli starting materials e la possibilità che si giunga anche in Italia ad estendere anche alle fasi II il regime di notifica per gli API sperimentali".
Sul tema delle sfide sfide produttive sul fronte dell’innovazione che le aziende italiane del farmaco sono chiamate a mettere in attoper rimanere competitive sugli scenari globaliche sono intervenuti anche gli esperti di Ipse, Alessandro Fava e Gianni Gottardo: "Le sfide da affrontare per cogliere le opportunità di innovazione e integrarle nel proprio sistema produttivo - hanno spiegato - richiedono di considerare anche le partnership con i propri fornitori e, non da ultimo, la disponibilità al cambiamento delle proprie risorse interne. Un’altra criticità riguarda la gestione del ciclo di vita del prodotto, altro elemento legato in modo imprescindibile all’innovazione".
Alla tracciabilità dei farmaci lungo l’intera supply chain è stata dedicato l’intervento di Piero Iamartino, esperto dell’Associazione Farmaceutici Industria (AFI), che ha posto l’accento sulla complessità del dover documentare tutti i percorsi degli API e degli eccipienti, a partire dagli intermedi critici per la produzione del principio attivo. La responsabilità finale è del fabbricante del medicinale finito, che è chiamato a discutere e concordare i requisiti delle forniture con i propri fornitori. Anche il produttore dell’API è tenuto a valutare i propri fornitori di materie prime ed intermedi, documentando l’intera catena della distribuzione. La rispondenza alle GMP e alle GDP da parte dei fornitori deve essere verificata tramite audit da parte del fabbricante del prodotto finito. “Tra i principali rischi per la tracciabilità - ha spiegato Piero Imartino - la possibilità che alcuni siti produttivi non corrispondano a quelli dichiarati, o vengano affidati subappalti di fasi produttive non dichiarati e/o autorizzati o non rispondenti alle GMP", ha concluso, sottolineando per il futuro "l’opportunità di portare il sistema alla completa digitalizzazione, implementando anche nuove tecnologie come la blockchain".