Poste le basi per un esercizio di collaborazione interindustriale per aiutare a prevenire anche in futuro gap di fornitura, che si affianca al progetto allo studio del Mise per il reshoring di farmaci e principi attivi sul territorio nazionale
Focus sul sotto-trattamento nella ricerca CliCon al centro di in un convegno organizzato dal Gruppo Italiano Biosimilari (IBG) e dal Gruppo Italiano per le MICI. Il sottosegretario alla Salute Sileri annuncia l'avvio di un tavolo di lavoro su ricerca, formazione e programmazione
Gli strumenti già esistenti consentono il recupero fino al 40-50% degli investimenti oltre i 20 milioni tramite accordi di programma nelle Regioni del Sud. Ma per il Nord occorre una deroga della Commissione UE alla normativa sugli aiuti di Stato
Da Medicines for Europe la Market policy review 2020 sui biosimilari, con una panoramica completa delle politiche in tema di disponibilità, tariffazioni, mercati al dettaglio, gare, rimborsi, politiche relative agli operatori sanitari, informazione e istruzione.
Del Covid e delle sue vittime sappiamo tutto. Forse anche troppo. Ogni giorno. Ma che fine hanno fatto i pazienti non-Covid? A ri-accendere la domanda è l’Osservatorio permanente sullo stato dell’assistenza ai pazienti NON Covid-19 lanciato con il terzo Rapporto di Salutequità - Organizzazione indipendente per la valutazione della qualità delle politiche per la salute, guidata da Tonino Aceti - dedicato proprio alla “Trasparenza e accesso ai dati sullo stato dell’assistenza ai pazienti NON Covid-19” che traccia un bilancio inquietante. Con la pandemia, la Lombardia ha perso 2,4 anni di vita, il 10% di un’intera generazione; l'attesa di vita alla nascita in Italia è andata indietro in media quasi di un anno, abbassando l’asticella soprattutto nelle Regioni del Nord, per una media Italia di 9 mesi di vita persi. E ci son buone probabilità che le cose in futturo possano andare ancora peggio.
"Nel 2020 - denuncia Salutequità - la rinuncia alle cure dei pazienti non-Covid è aumentata di circa il 40% rispetto al 2019; il 10% dei cittadini ha rinunciato alle cure, circa la metà a causa del Covid-19, contro il 6,3% del 2019. Il fenomeno è addirittura raddoppiato, sempre a causa del Covid, in Piemonte (48,5%), Liguria (57,7%), Lombardia (58,6%) e Emilia-Romagna (52,2%). A rinunciare maggiormente alle cure, infine, sono state le donne".
Se va male per chi contrae l’infezione da Sars-Cov2, va malissimo per chi era già affetto da altre patologie o, peggio, per chi avrebbe potuto evitarle grazie agli screening oncologici: nel periodo gennaio-settembre 2020 rispetto allo stesso periodo 2019 - documenta il rapporto - sono stati svolti 2.118.973 in meno screening cervicali, mammografici e colorettali (-48,3%). Dati da cui discende una riduzione delle diagnosi di lesioni, carcinomi e adenomi avanzati per un totale di 13.011.
Di più: la contrazione dell’accesso alle cure ha influito anche sull’accesso alle terapie innovative. Nel periodo gennaio-settembre 2020, infatti, la spesa per i farmaci innovativi non oncologici è diminuita per un ttotale di -122,4 MLN di euro rispetto al 2019.
“Quel che è peggio però - commenta Tonino Aceti Presidente di Salutequità - è che se da un lato nessun provvedimento per gli anni 2021 e seguenti, a partire dall’ultima legge di Bilancio per arrivare al recente decreto Sostegni, ha preso in considerazione una qualsiasi forma di programmazione e/o finanziamento per il “rientro” delle mancate terapie non-Covid mancano anche all’appello una serie di dati ufficiali accessibili pubblicamente, fondamentali per dimensionare con precisione l’effettivo fenomeno e mettere in campo rapidamente le necessarie azioni correttive e monitorarle tempestivamente”.
L'elenco è lungo e deprimente: l'ultima Relazione sullo stato sanitario del Paes è quella del 2012-2013; il Monitoraggio dei LEA è fermo ai risultati 2018; - 7 anni di ritardo rispetto ai dati 2020; idem per il Nuovo Sistema di Garanzia dei LEA (NSG). Fermi al 2018 anche l'Annuario statistico del Servizio sanitario nazionale; il report sul Personalde del SSN; il Conto Annuale. L'edizione aggiornata delle SDO (Rapporto annuale sulle attività di ricovero ospedaliero) è quella del 2019.
"I ritardi nella pubblicazione dei dati contenuti nelle rilevazioni ufficiali hanno sempre rappresentato una criticità importante del SSN, sia dal punto di vista della verifica dell’efficacia degli interventi, sia da quello sulle modalità di utilizzo delle risorse stanziate, a partire da quelle previste nei provvedimenti emergenziali per il potenziamento del SSN, dall’assistenza territoriale, al recupero delle liste di attesa", commenta ancora Aceti .
"Per colmare il gap - conclude - è necessario predisporre un preciso programma che parta dall’immediato aggiornamento al 2020 e relativa pubblicazione di tutte le rilevazioni ufficiali delle diverse istituzioni sanitarie (e non), per misurare lo stato attuale dell’assistenza garantita ai pazienti NON Covid-19, rilevare le criticità nell’accesso alle cure e impostare subito un Piano nazionale di recupero del SSN per gli assistiti non covid. Per questo serve una nuova Relazione sullo stato sanitario del Paese 2020-2021 (l’ultima si riferisce al 2012-2013), come pure avviare un’indagine conoscitiva parlamentare sullo stato dell’assistenza garantita ai pazienti NON Covid”.
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Foto: Maurício Mascaro su Pexels
Dopo Roma e Milano, anche Torino entra nel programma Cities Changing Diabetes®, l’iniziativa realizzata in partnership tra University College London (UCL) e il danese Steno Diabetes Center, con il contributo di Novo Nordisk, coordinata in Italia da Health City Institute, in collaborazione con Ministero della salute e Istituto superiore di sanità, Anci – Associazione Nazionale Comuni Italiani, Intergruppo parlamentare qualità di vita nelle città, Istat, Fondazione Censis, Coresearch, Italian Barometer Diabetes Observatory (Ibdo) Foundation, le società scientifiche del diabete, della medicina generale e le associazioni di tutela dei diritti dei pazienti e di cittadinanza.
Il programma, che si avvia a coinvolgere oggi 40 metropoli di tutto il mondo, si propone di evidenziare il rapporto tra urbanizzazione e diabete tipo 2 e a promuovere iniziative per salvaguardare la salute dei cittadini e prevenire la malattia.
Nell’area della città metropolitana di Torino risiedono, secondo le elaborazioni di Health City Institute su dati ISTAT, circa 135 mila persone con diabete, 52 mila nel solo capoluogo. Torino occupa, in termini assoluti, la quarta piazza nella graduatoria della città metropolitane italiane per popolazione residente colpita dalla malattia – dopo Roma, Napoli e Milano. Tuttavia, è al primo posto tra quelle del Nord Italia in termini percentuali. Paragonandola, ad esempio, alla vicina Milano, che la precede nella classifica con circa 180 mila residenti, pari al 5,6 per cento della popolazione, le persone con diabete dell’area metropolitana torinese corrispondono al 6 per cento dei residenti.
Oltre 3 miliardi di persone nel mondo vivono oggi in città metropolitane e megalopoli: Tokyo ha 37 milioni di abitanti, Nuova Delhi 22 milioni, Città del Messico 20 milioni. Poco meno di 15 anni fa, per la prima volta nella storia dell’Umanità, la popolazione mondiale residente in aree urbane ha superato la soglia del 50 per cento e questa percentuale è in crescita, come indicano le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità. Nel 2030, 6 persone su 10 vivranno nei grandi agglomerati urbani, nel 2050 7 su 10. Un filo sottile ma evidente, inoltre, lega il fenomeno dell’inurbamento alla crescita di malattie come il diabete o l’obesità. Esiste infatti una suscettibilità genetica a sviluppare la malattia, cui si associano fattori ambientali legati allo stile di vita. Oggi, vive nelle città il 64 per cento delle persone con diabete, l’equivalente di circa 246 milioni di persone, ma il numero è destinato a crescere. La principale arma a disposizione per frenare questa avanzata è la prevenzione, attraverso la modifica di quei fattori ambientali, educativi e culturali che la favoriscono. Per questo motivo è nato Cities Changing Diabetes®: le città che sottoscrivono l’Urban Diabetes Declaration si impegnano a rispettare cinque principi guida per rispondere alla sfida del diabete urbano: investire nella promozione della salute e del benessere a lungo termine, agire sui determinanti sociali e culturali che sono le cause profonde che determinano le opportunità di una vita sana per i cittadini, integrare la salute in tutte le politiche, coinvolgere attivamente le comunità e creare soluzioni di partenariato con altri settori in modo trasversale.
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Foto: Polina Tankilevitch su Pexels
Le terapie digitali (digital therapeutics, DTx), l’ultima frontiera della medicina, stanno attirando un’attenzione sempre maggiore. Si tratta di interventi terapeutici a tutti gli effetti, in cui un software prende il posto del principio attivo di un farmaco, e possono integrare o sostituire le terapie tradizionali. Questo anno di pandemia ha evidenziato l’importanza della tecnologia digitale in ambito sanitario e le terapie digitali fanno parte di quella che è a tutti gli effetti una rivoluzione di pensiero, di pratica medica e di gestione sanitaria. Ad oggi sono già state interessate da questo approccio patologie come il diabete, sintomi di alcuni tipi di cancro, colon irritabile, dipendenza dal fumo o droghe, mal di schiena, asma, deficit da attenzione ADHD, insonnia e attacchi di panico.
A fare il punto sulla materia è l'Osservatorio Terapie Avanzate (OTA) che ha raccolto le informazioni, finora disponibili solo in maniera frammentaria, sulle diverse terapie digitali approvate nel mondo e ha realizzato una tabellche le illustra in maniera sintetica ed esaustiva.
Si tratta di terapie giovanissime, la prima è stata approvata nel 2017 dalla Food and Drug Administration (FDA) statunitense e ad oggi gli Stati Uniti vantano il maggior numero di DTx approvate. Nel panorama europeo il Paese più avanzato su questo fronte è la Germania, seguita dalla Francia e dalla Gran Bretagna. L’Italia mostra invece un “ritardo” digitale molto marcato, manca una normativa dedicata e nessuna DTx è stata ancora autorizzata. La sezione dedicata alle terapie digitali, lanciata da OTA quasi un anno fa, contiene articoli divulgativi su queste nuovissime e ancora poco conosciute terapie, con particolare attenzione alle pubblicazioni – apparse sulle principali riviste scientifiche nell’ambito di digital health – sulle sperimentazioni cliniche randomizzate e alle autorizzazioni da parte degli enti regolatori.
“È importante sottolineare la differenza tra le semplici app scaricabili dagli store online e le DTx: queste ultime sono infatti studiate e sviluppate attraverso sperimentazioni cliniche controllate e randomizzate su esiti di salute misurabili, come per qualsiasi altro farmaco in commercio – commenta Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di informatica medica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, membro del comitato scientifico di Osservatorio Terapie Avanzate – Essendo vere e proprie terapie sono sottoposte a rigidi controlli: sono tenute a rispettare standard di sicurezza ed efficacia e a rispondere ai requisiti normativi richiesti dagli enti regolatori. Si tratta di strumenti all’avanguardia che, oltre alla valutazione clinica, devono rispondere a determinati criteri di usabilità e di gestione dei dati e della privacy degli utenti”.
Modificare il comportamento del paziente è la base su cui poggiano molte terapie digitali: infatti, sebbene siano numerose le aree mediche nelle quali ci sono terapie digitali approvate e in sperimentazione, c’è una certa preponderanza nelle dipendenze e nelle malattie croniche, in particolare mentali e metaboliche. Ad oggi la “modalità di somministrazione” è quello della “app”, ma non è l’unico: infatti, negli USA è stato autorizzato il videogioco EndeavoRx, una terapia digitale per il trattamento dell’ADHD nei bambini tra gli 8 e i 12 anni. Le DTx già approvate hanno dimostrato di avere una efficacia pari o superiore rispetto al farmaco normalmente utilizzato, spesso con una migliore tollerabilità. Ad oggi, anche se ci sono già alcuni esempi di approvazione e commercializzazione, le DTx non sono ancora entrate a tutti gli effetti nella pratica medica.
“Ci sono alcuni fattori che limitano la loro applicazione, tra cui in primis il ‘ritardo’ digitale di alcuni Paesi, specialmente in sanità, ma anche la scarsa conoscenza del prodotto da parte di tutti gli stakeholder coinvolti (pazienti, medici, istituzioni, ospedali) con conseguente poca strategia nell’inserirlo nella pratica clinica quotidiana e il fattore economico”, aggiunge Santoro. “Inoltre, a livello burocratico ci sono ancora alcune lacune: infatti, si stanno delineando ora le normative internazionali e nazionali per la gestione, l’approvazione e la diffusione di queste terapie.”
Per quanto riguarda la normativa, e restando nel nostro continente, un esempio da cui potremmo trarre beneficio è la Germania, uno tra i Paesi che si sono maggiormente occupati di strutturare una regolamentazione ad hoc per le DTx (e in più in generale per gli strumenti di digital health), facilitandone lo studio, la sperimentazione e l’approvazione. Già nel 2019 il parlamento tedesco aveva approvato la legge sull’assistenza sanitaria digitale che, oltre a voler riformare il sistema sanitario tedesco su base tecnologica, getta le basi per l’ingresso delle DTx. In Italia nessuna terapia digitale è stata ancora approvata e autorizzata al commercio, ma la situazione si sta evolvendo velocemente perché la tecnologia digitale è in continuo aggiornamento: il prossimo futuro potrebbe riservarci molte novità in questo ambito.
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Foto: Francesco Ungaro su Pexels
Fare il vaccino anti-Covid è importante ma altrettanto importante è verificarne gli effetti nella popolazione in termini di risposta immunitaria e durata. A questo mirano due studi avviati dall'ISS: il primo, in collaborazione con la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), è dedicato agli anziani residenti nelle RSA, il secondo è rivolto a una popolazione più ampia, composta da circa 2000 persone.
Studio su popolazione generale
Per studiare la risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione, sia quella di tipo ‘umorale’, cioè mediata da molecole che circolano nell’organismo come gli anticorpi, che quella di tipo cellulare, l’Istituto Superiore di Sanità ha infatti avviato uno studio longitudinale multicentrico su adulti sani e anziani fragili vaccinati con diverse tipologie di vaccino anti-COVID-19. Il monitoraggio coinvolgerà un campione di 2000 individui per ognuno dei vaccini attualmente disponibili nel Paese e comprenderà due gruppi: soggetti relativamente sani tra i 30 e i 65 anni di età e soggetti di età superiore ai 65 anni fragili (cioè affetti da almeno due comorbidità).
Il dosaggio del titolo anticorpale sarà effettuato a 1, 6 e 12 mesi dalla vaccinazione. Ad un anno dalla vaccinazione sarà inoltre misurata la risposta cellulo-mediata. I dati raccolti forniranno informazioni sulla quantità e la qualità della risposta immunitaria indotta dai diversi vaccini in adulti e anziani fragili e, in via preliminare, sull’efficacia nel proteggere dall’infezione e/o dalla malattia.
La ricerca è stata progettata in base a quanto previsto dal documento presentato il 2 dicembre 2020 al Parlamento recante le “Linee guida del Piano strategico per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19” (Decreto Ministeriale 2 gennaio 2021), elaborato da Ministero della Salute, Struttura Commissariale Straordinaria per l’Emergenza, Istituto Superiore di Sanità, AgeNaS e AIFA, per la necessità di raccogliere tempestivamente dati sulla risposta anticorpale e sulla memoria immunologica nelle persone sottoposte a vaccinazione anti-COVID-19 per informare le decisioni sul piano di vaccinazione nazionale anti SARS-CoV-2/COVID-19. Lo studio sarà coordinato dal Dipartimento di Malattie Infettive dell’ISS e coinvolgerà 8 centri ospedaliero-universitari dislocati sul territorio nazionale (Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I, Sapienza Università Roma; IRCCS Policlinico Ospedale Maggiore, Milano; Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, Università di Bologna; A.S.S.T. Ovest Milanese, Legnano (MI); Ospedale "Colonnello D'Avanzo" Policlinico Riuniti, Foggia; IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, Genova; Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico "Paolo Giaccone", Palermo; Università di Padova, ULSS 6 Euganea, Padova) e per il disegno campionario e le analisi matematico/statistiche la Fondazione Bruno Kessler, Trento.
Studio sugli anziani nelle RSA
Affidato invece a GeroVAX - lo studio avviato dall'ISS con la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) - il compito di valutare efficacia, sicurezza e durata delle vaccinazioni anti-Covid-19 nel contesto delle RSA, sugli anziani più fragili nei quali la risposta immunitaria potrebbe essere alterata o inferiore.
L’indagine ha l’obiettivo di coinvolgere 5.000 residenti in 90 RSA di 10 Regioni italiane, parte della rete del progetto GeroCovid RSA promosso dalla SIGG nel quadro di un più ampio studio multicentrico osservazionale, unico in Europa, nato nel marzo scorso per raccogliere dati sulla situazione reale degli anziani più esposti alla minaccia Covid. A oggi sono già stati arruolati oltre 2500 anziani nelle strutture di Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Per lo studio saranno registrate le eventuali reazioni avverse al vaccino nei primi 7 giorni dalla somministrazione e ne sarà soprattutto valutata l’efficacia, raccogliendo a 6 e 12 mesi di distanza dalla prima dose il numero di eventuali nuovi casi di Covid-19, gli accessi in Pronto Soccorso, i ricoveri ospedalieri e la mortalità. Quindi, su un campione di 779 anziani, sarà valutata la produzione di anticorpi prima del vaccino e a distanza di 2, 6 e 12 mesi dalla prima dose. In 40 pazienti sarà misurata anche la risposta immunitaria cellulo-mediata a 12 mesi dal vaccino. In questo modo sarà possibile stimare la durata della protezione vaccinale negli anziani più vulnerabili.
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Foto: Bud Helisson su Unsplash
Le richieste di Medicines for Europe in vista della riunione del Consiglio Europeo del 25 e 26 marzo
Il tema delle Value Added Medicines al centro di un simposio organizzato oggi dalla Società Italiana di Farmacologia in collaborazione con Egualia. Esperti a confronto sull’innovazione continua delle molecole
Tutti daccordo sulla necessità di cambiare una governance farmaceutica obsoleta, basata su tetti di spesa e payback,silos budget. Ma come cambiare? Opzioni e ipotesi operative sono state al centro della Tavola Rotonda "Drug policies and future priorities", moderata da Nello Martini.
La Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS è il migliore ospedale d’Italia. È quanto emerge dalla classifica World’s Best Hospital 2021 stilata come ogni anno dallo storico magazine statunitense “Newsweek”, in collaborazione con Statista Inc.
“È un riconoscimento particolarmente significativo nell’anno della pandemia da Covid-19 – afferma il professor Marco Elefanti, Direttore Generale della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS –, la conferma internazionale del valore del nostro modello assistenziale anche in risposta all’emergenza sanitaria. In questo anno infatti abbiamo continuato a prenderci cura al meglio di tutti i nostri pazienti, grazie anche a soluzioni organizzative originali come l’integrazione della teleassistenza nei processi di cura, la creazione di un ospedale dedicato esclusivamente ai pazienti Covid e la realizzazione di percorsi per i malati Covid-free, che sono la maggioranza. Il tutto in tempi record e con grande partecipazione da parte di tutta la nostra comunità, medici, personale sanitario e tecnico amministrativo, che merita davvero un plauso. Questi risultati ci inorgogliscono e ci ripagano dei tanti sacrifici fatti senza sosta in una stagione difficilissima per assicurare sempre la migliore assistenza ai nostri pazienti. Auspico, infine, che questo risultato sia di stimolo a far sempre meglio e a tenere alta la guardia rispetto alla situazione attuale, ancora molto complessa e delicata”.
La classifica di “Newsweek” ha preso in esame 2.000 ospedali di 25 nazioni e il ranking tiene conto dell’eccellenza delle cure erogate, dalla presenza di medici di chiara fama, di uno staff infermieristico di prima qualità e di un’offerta di tecnologie all’avanguardia.
Gli ospedali da prendere in esame per il ranking mondiale vengono selezionati sulla base delle ‘nomination’ suggerite da esperti in campo sanitario (sono stati coinvolti oltre 74mila tra medici, manager e professionisti sanitari tra settembre e novembre 2020), sulla base dei risultati di indagini condotte sui pazienti e dei key performance indicator medici sugli ospedali (per esempio dati sulla qualità dei trattamenti, sulle misure igieniche e sulla safety dei pazienti, rapporto numero di pazienti per medico e per infermiere). Dopo aver selezionato in questo modo gli ospedali, un board di esperti internazionali procede alla loro valutazione e a stilare la classifica mondiale.
Eccellente la performance globale dell’Italia nella classifica di Newsweek. Infatti, tra i best hospital del mondo 2021 figurano 7 ospedali tra i primi 100: oltre al Gemelli (primo in Italia e 45° nel ranking mondiale) si segnalano il Policlinico Sant’Orsola Malpighi (52° posto) il Grande Ospedale Metropolitano Niguarda (72°posto), l’Istituto Clinico Humanitas (79°), l’Ospedale San Raffaele (88°), l’IRCCS Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia (93°) e l’Azienda Ospedaliera di Padova (98° posto).
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Foto: Tom Fisk su pexels
Mentre prosegue con fasi alterne il balletto delle priorità sulle età degli ammessi alla vaccinazione anti-Covid Egualia e Farmindustria – in un messaggio inviato al ministro della Salute, Roberto Speranza, al presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini e al coordinatore della Commissione Salute delle Regioni, Genesio Icardi – hanno ribadito la richiesta di vedere inserite al più presto, tra le categorie professionali considerate prioritarie nell'ambito del piano vaccinale nazionale e regionale, le lavoratrici e i lavoratori del settore farmaceutico, anche alla luce della nuova richiesta di impegno sul fronte della produzione dei vaccini necessari a contrastare la pandemia.
«Consapevoli della complessità del momento che stiamo vivendo, per l’aggravarsi della situazione epidemiologica a livello nazionale – si legge nel messaggio firmato dal presidente di Egualia, Enrique Häusermann e dal presidente Framindustria, Massimo Scaccabarozzi - vorremmo sottolineare ancora una volta come sia divenuto strategico e prioritario per la continuità della produzione farmaceutica nazionale, vaccinare gli addetti degli impianti di produzione».
«Le industrie del farmaco non hanno mai smesso di garantire continuità nell'approvvigionamento di farmaci, a partire dai salvavita utilizzati nei reparti ospedalieri con particolare riferimento alle terapie intensive – proseguono -. In quest'ottica le persone che lavorano nelle imprese del farmaco rappresentano, soprattutto in questo momento, una risorsa indispensabile per continuare a garantire la stessa capacità di risposta avuta dalla nostra industria fino a questo momento».
Nello scorso marzo - ricordano ancora le associazioni di settore -. proprio in virtù della strategicità del comparto, gli addetti farmaceutici erano stati esclusi dall'obbligo della quarantena proprio per garantire l'indispensabile continuità del processo produttivo. Ora per lo stesso motivo è necessario garantire un'adeguata copertura vaccinale tra le categorie prioritarie, al fine di evitare criticità operative.
«Diverse le aziende che già da qualche settimana registrano un livello importante delle ore di assenza dei lavoratori per ragioni sanitarie, con un potenziale impatto sulle tempistiche delle produzioni e, quindi, dell'erogazione di farmaci in tutto il Paese. Un rallentamento che in questo momento non possiamo permetterci. - concludono - . Allo stesso tempo siamo convinti che l'imponente progetto del Governo volto al rafforzamento dell'intera filiera per la produzione di farmaci e vaccini, debba poter trovare terreno fertile e svilupparsi su impianti produttivi in grado di lavorare a pieno regime. In virtù di ciò, crediamo prioritario che agli addetti dell'industria sia garantita al più presto l'accesso alla vaccinazione».
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In una comunicazione adottata oggi le raccomandazioni agli Stati membri: servono politiche di bilancio credibili che affrontino le conseguenze a breve termine della pandemia di coronavirus e sostengano la ripresa, senza compromettere la sostenibilità di bilancio a medio termine.
I dati illustrati da Egualia in audizione in Commissione Igiene e Sanità al Senato sul PNRR. Tra le iniziative presentate dalle aziende aderenti all’associazione anche nuovi impianti per il ciclo di produzione degli sterili, compresi i vaccini.
La ricetta nel Rapporto annuale di Medicines for Europe sui dati del comparto. Sotto la lente le strategie adottate in 22 Paesi europei.
In corso in Europa il censimento dei siti produttivi idonei. Programmare gli investimenti per far fronte alla storicizzazione dei fabbisogni
L'appello in un documento diffuso oggi dall'associazione europea dei produttori di farmaci fuori brevetto. L’UE deve eliminare le barriere alla continua innovazione degli off patent. La Pharma Strategy occasione unica per un percorso che garantisca parità di condizioni con gli States
Un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Cnr di Bari, dell’Università di Bari e dell’Università Statale di Milano ha sviluppato uno strumento in grado di facilitare la diagnosi genetica delle patologie e la scoperta di nuove mutazioni nel genoma associate a condizioni patologiche. Lo studio è pubblicato su Bioinformatics
Il nuovo software denominato VINYL (Variant prIoritizatioN bY survival anaLysis) - sviluppato da un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari, dell’Università "Aldo Moro" di Bari e dell’Università Statale di Milano - riproduce e ottimizza i principali criteri utilizzati in diagnostica molecolare per individuare mutazioni nel nostro genoma potenzialmente collegate con l’insorgenza di patologie genetiche, facilitando le applicazioni della genomica, che si occupa di capire i meccanismi di funzionamento del nostro patrimonio genetico tramite il confronto delle sequenze dei genomi. Lo studio è pubblicato su Bioinformatics.
“Si stima che mediamente il genoma di un individuo contenga milioni di piccole differenze, dette varianti genetiche, che nel loro insieme contribuiscono a delineare i tratti somatici tipici di ciascun soggetto”, spiega Graziano Pesole del Cnr-Ibiom. “Un numero ristrettissimo di queste varianti può anche causare malattie o condizioni patologiche. La capacità di conoscere e identificare i tratti genetici di una malattia può ovviamente facilitarne la diagnosi e la cura. Per questo motivo, negli ultimi anni, l’analisi del genoma di soggetti malati è sempre più utilizzata in genetica clinica”.
Gli studiosi hanno dimostrato che VINYL è in grado di effettuare le analisi dei dati genomici molto più rapidamente. “Il software rende automatica e veloce la decodifica degli eventuali effetti funzionali delle varianti genetiche, facilitando l’identificazione di quelle di possibile rilevanza clinica. VINYL è in grado di confrontare i profili genetici di migliaia di persone affette da una patologia con quelli di persone sane e identificare le caratteristiche salienti delle varianti associate alla malattia”, prosegue Pesole. Inoltre, lo strumento è capace di individuare nuove varianti genetiche di potenziale interesse clinico che non erano state identificate dalla curatela manuale dei dati.
“La medicina di precisione è un nuovo approccio che punta a utilizzare i profili genetici per sviluppare terapie mirate ed efficaci e costituisce una delle maggiori sfide per il futuro delle discipline biomediche”, conclude Pesole. “Per questo, lo sviluppo di metodi e strumenti informatici come VINYL sarà sempre più necessario per interpretare in maniera accurata le informazioni derivate dalla sequenza del nostro genoma”.
Lo studio è stato realizzato con il supporto della piattaforma Bioinformatica messa a disposizione dal nodo italiano dell’Infrastruttura di ricerca europea ELIXIR per le Scienze della vita, coordinata dal Cnr con la responsabilità di Graziano Pesole.
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Il diabete è in continua crescita in tutti i paesi europei. Fra il 2008 e il 2014 il numero di cittadini europei con diabete è cresciuto di 4,6 milioni, ovvero del 28 per cento in sei anni, con una crescita 24 volte maggiore rispetto a quella della popolazione nello stesso periodo. Questa crescita è evidente anche In Italia, dove Istat stima che dal 2000 al 2019 le persone con diabete siano aumentate di circa il 60 per cento, passando dal 3,8 per cento della popolazione al 5,8 per cento (ovvero oltre 3 milioni e mezzo di persone). Lo documenta la quattordicesima edizione dell’Italian Diabetes Barometer Report, che verrà presentata stasera durante il webinar patrocinato dal Ministero della Salute e dall’Intergruppo Parlamentare Obesità e Diabete “Il Diabete una malattia silente: l’impatto In Italia e nelle Regioni”.
Questo incremento è spiegabile con una pluralità di motivi, tra cui l’invecchiamento della popolazione, la sedentarietà, l’obesità e in generale la scarsa attenzione a stili di vita salutari hanno un notevole impatto. Anche i continui progressi nel contrasto alle malattie croniche, quali le migliorate capacità diagnostiche accompagnate a una diagnosi in età più giovane o la capacità del sistema di cura di allungare la sopravvivenza delle persone con diabete e relative complicanze contribuiscono a questa crescita.
“L’aumento della popolazione con diabete si riscontra in tutte le regioni d’Italia, ma gli incrementi non sono stati omogenei su tutto il territorio. In particolare, rispetto al 2000 le prevalenze standardizzate aumentano maggiormente nelle regioni del Nord e del Centro (escluso il Lazio), che partivano da livelli più bassi. Per il Mezzogiorno fa eccezione la Sicilia che passa dal 4,4 per cento nel 2000 al 6,9 per cento nel 2019. Le differenze regionali si mantengono particolarmente elevate nella popolazione anziana, oltre 15 punti percentuali la distanza tra Bolzano e la Calabria, dove la quota di anziani con diabete supera il 25 percento e il tasso di mortalità per diabete è superiore alla media nazionale”, dice Roberta Crialesi, Dirigente Servizio Sistema integrato salute, assistenza, previdenza e giustizia, Istat.
Per quanto riguarda la mortalità, si conferma la tendenza a crescere passando dalle aree settentrionali a quelle meridionali del paese, con una certa variabilità in base alle province della stessa regione. Per esempio, in Piemonte i decessi per diabete rappresentano il 2,9 per cento dei decessi totali, una percentuale inferiore alla media nazionale che si attesta al 3,5 per cento, ma nella provincia di Vercelli il dato sale al 4,1 per cento, e in quella di Torino scende al 2,5. Analogamente, in Puglia, la cui media regionale è 4,6 per cento, si passa dal 5,6 di Taranto al 3,6 di Lecce.
“Questi dati indicano come ci sia ancora troppa disparità nell’accesso alle cure e ai trattamenti tra le varie Regioni italiane, ma anche tra le singole province di una stessa regione, finendo per fornire un quadro non accettabile all’interno di un Servizio Sanitario nazionale universalistico”, commenta Domenico Cucinotta, Coordinatore e Editor dell’Italian Diabetes Barometer Report. “Siamo convinti che la raccolta e la condivisione di informazioni, alla base del confronto e dei processi decisionali, possano contribuire a ridurre il peso clinico, sociale ed economico del diabete. Questo report prodotto dall’Italian Barometer Diabetes Observatory (IBDO) Foundation in collaborazione con ISTAT e CORESEARCH illustra una serie di dati e di passaggi chiave che possono contribuire ad affrontare con successo la crescita tumultuosa del diabete tipo 2, anche nel contesto dell’attuale gravissima crisi sanitaria globale e che, al contempo, possono avere un impatto di vasta portata sullo sviluppo complessivo delle malattie croniche”, aggiunge Renato Lauro, Presidente IBDO Foundation.
L’aumento della popolazione con diabete negli ultimi anni ha comportato ovviamente un aumento di spesa per il Sistema Sanitario, ma non per quanto riguarda il costo medio pro-capite. Infatti, secondo i dati dell’osservatorio ARNO diabete, il costo medio annuo nel 2018 (escludendo i costi per dispositivi, come strisce, siringhe, aghi, voce non presente nel 2010) ammonta a 2.735 euro, praticamente uguale a quello del 2010. Analizzando le componenti dei costi, si evidenzia un lieve aumento di quelli per la terapia del diabete (+78 euro) e per le prestazioni ambulatoriali (+94 euro) e un aumento più marcato dei costi per altri farmaci (+224 euro), mentre si sono ridotti in maniera importante i costi per le ospedalizzazioni (-417 euro). “Questi dati suggeriscono come un investimento nell’appropriatezza terapeutica e nell’assistenza specialistica ambulatoriale possano rappresentare la chiave di volta per ridurre gli ingenti costi delle ospedalizzazioni, a loro volta indice di complicanze del diabete. Solo il 9 per cento della spesa riguarda i farmaci antidiabete; il 31 per cento è legato alle terapie per le complicanze e le patologie concomitanti, mentre oltre il 40 per cento è relativo al ricovero ospedaliero”, spiega Antonio Nicolucci, Direttore CORESEARCH.
Secondo quanto rilevato da uno studio condotto nel 2011 dalla London School of Economics, il costo medio per paziente in Italia risulta marcatamente più basso rispetto a Francia, Gran Bretagna e Germania, dove l’assistenza diabetologica è demandata principalmente alla medicina generale, contrariamente a quanto accade in Italia, dove è invece presente una rete diffusa di strutture specialistiche, in grado di fornire assistenza a oltre il 50 per cento dei pazienti con diabete nel nostro Paese.
“Il modello italiano di cura del diabete è uno dei più efficienti e grandi progressi sono stati fatti negli ultimi anni nella lotta a questa malattia cronica, ma molto ancora si può fare. Per esempio, bisognerebbe implementare i Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) sul diabete in modo che risultino semplici, condivisi ed efficaci, e che, soprattutto, facilitino il superamento delle barriere alla intensificazione terapeutica e favoriscano l’interazione della medicina del territorio con la rete specialistica diabetologica, per la quale l’Italia rappresenta un modello a livello internazionale per la presa in carico della persona con diabete”, dice Andrea Lenzi, Presidente di Health City Institute e del Comitato per la biosicurezza e le biotecnologie della Presidenza del consiglio dei ministri.
“In questo anno segnato dalla pandemia è risultato ancora più evidente quanto sia importante avere accesso a dati confrontabili, consolidati e corretti per spiegare fenomeni complessi, in maniera tale da poter prendere decisioni conseguenti. Per questo motivo, l’Intergruppo parlamentare “Obesità e Diabete”, costituito in seno alla XVIII Legislatura quale spazio di dialogo e confronto parlamentare permanente e bipartisan sui temi dell’Obesità e del Diabete, sollecitando le Istituzioni governative a prendersi carico di questa malattia in maniera uniforme ed equa su tutto il territorio nazionale, saluta sempre con grande interesse documenti e analisi come quelle dell’IBDO Report”, afferma Daniela Sbrollini, Co-Presidente Intergruppo parlamentare Obesità e Diabete.
“Dall’analisi effettuata dall’Istat e dell’Istituto Superiore di Sanità è emerso che nella prima fase della pandemia Covid-19, il 16 per cento dei casi di decessi di persone risultate positive riguardava persone con diabete. Per questo motivo, siamo molto soddisfatti di aver avuto un riscontro positivo dal Ministero della Salute, che ha inserito, nel piano vaccinale approvato dalla Conferenza Stato-Regioni lo scorso 9 febbraio, le persone con diabete e obesità, fragili e vulnerabili, tra i gruppi di cittadini da considerare prioritari per la vaccinazione contro il Sars-Cov-2, come richiesto dalle società scientifiche e dal mondo diabetologico”, aggiunge Roberto Pella, Co-Presidente Intergruppo parlamentare Obesità e Diabete.
“Il diabete è una malattia dal quadro morboso complesso, ed è riportato come causa iniziale in circa 23 mila decessi, ma è presente tra le malattie che hanno un ruolo nel determinare il decesso (concausa) in un numero di casi circa 4 volte più elevato (oltre 80 mila decessi). Già prima della diffusione del virus SARS-CoV-2, il diabete aveva un’associazione significativa anche con le malattie infettive e parassitarie: tra coloro che presentano menzione di diabete si rilevava infatti un eccesso del 10 per cento dei decessi”, spiega Gian Carlo Blangiardo, Presidente dell’Istat.
“L’organizzazione sanitaria e i decisori di politiche sanitarie non possono prescindere dalle informazioni epidemiologiche che a livello nazionale derivano da numerose fonti coordinate da istituzioni e società scientifiche, che forniscono aggiornamenti sullo stato attuale di numerosi aspetti correlati al diabete, come il numero di persone affette ma anche la loro qualità di vita, la gestione clinica, l’accesso alle strutture sanitarie, ai dispositivi medici, alle cure domiciliari, alle terapie”, conclude Silvio Brusaferro, Presidente Istituto Superiore di Sanità.
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